Piccolo è bello?

Compatibilità
Salva(0)
Condividi

Workout Magazine - Studio Chiesa communication

Heritage al femminile: Workout magazine incontra Mariacristina Gherpelli, CEO di GHEPI S.r.l.

PMI: acronimo di Piccole Medie Imprese, cioè quelle imprese che hanno un numero di addetti tra i 10 e i 249 e un fatturato annuo inferiore ai 50 milioni. Unite alle microimprese, il cui numero di addetti è invece inferiore a 10, rappresentano l’ossatura dell’economia italiana, circa il 99% delle nostre imprese. Dopo tanti anni di una silenziosa ma fattiva presenza, è relativamente da poco tempo che i riflettori degli studi di settore e dei media nazionali si sono accesi su di loro: sono aziende nella stragrande maggioranza famigliari, sono maggiormente localizzate al Nord, assorbono circa il 76,5% della popolazione lavorativa e contribuiscono in modo significativo al PIL nazionale (64%), sono attente ai temi della sostenibilità (anche se a volte lente nelle azioni in questo campo). Poi però soffrono di più di una debolezza, nella digitalizzazione innanzitutto (nonostante il quadro anno dopo anno migliori), molte traccheggiano nel passaggio generazionale, nell’ingresso di manager dall’esterno, negli investimenti rivolti all’innovazione. Per ognuna di queste voci c’è un numero, un diagramma, una tabella che nell’insieme concorrono a delineare un quadro dal quale però resta fuori un elemento difficilmente misurabile: il fattore umano.

Sì, perché nelle PMI la figura del manager che esegue freddamente quel che ritiene sia il bene dell’azienda, senza guardare in faccia a nessuno, non esiste. C’è sempre una radicazione nel territorio, ci si conosce per nome tra titolari e collaboratori, i figli spesso frequentano le stesse scuole o le stesse attività extrascolastiche, ogni decisione da prendere è misurata anche sull’impatto diretto che avrà sulle persone che dell’azienda o della comunità fanno parte e quando le situazioni diventano difficili il «buon nome» dell’imprenditore diventa garanzia del buon operare. Essere piccoli significa anche questo. Troppo melenso? Parlando con i titolari di tante imprese è proprio così, anche se c’è spesso una ritrosia pudica a raccontarsi. Mariacristina Gherpelli, CEO di GHEPI S.r.l., non fa eccezione: più di una volta la vedrò esitante nel rievocare determinate scelte, quasi che parlarne sia farsene un vanto. A un certo punto mi dirà: «Questa cosa non so se mi piacerebbe vederla scritta»: io comunque ci provo.

La sede di GHEPI, a Cavriago (RE).

GHEPI Srl: azienda di Cavriago, paese reggiano di meno di diecimila anime, la cui area industriale – Corte Tegge — è la seconda per importanza della provincia. Già la storia di questo comune alle porte di Reggio Emilia meriterebbe una narrazione a se stante tanto è intessuta di eventi storici drammatici e altri semplicemente curiosi (by the way, per gli amanti del genere, Cavriago ha dato i natali a Orietta Berti), ma resto concentrata su GHEPI, 53 dipendenti ripartiti a metà, quasi matematicamente, in 27 donne e 26 uomini, 8 milioni di fatturato nel 2024, un’attività focalizzata sulla progettazione e la produzione di componenti meccanici di precisione e articoli estetici per molti settori industriali attraverso lo stampaggio a iniezione di materiali polimerici: «Le fasi di R&D e progettazione le gestiamo internamente così come, nel 99% dei casi, lo stampaggio, mentre la costruzione degli stampi da una quindicina di anni è realizzata presso fornitori esterni, in Italia ma soprattutto in Cina».

Uno degli eventi organizzati da GHEPI per i clienti.

La scelta di delocalizzare questa fase di produzione non è stata presa a cuor leggero e, a dire la verità, nemmeno rientrava, ai tempi, nei piani strategici di GHEPI: «Diciamo che agli inizi degli anni 2000 abbiamo ricevuto una forte spinta in tal senso dai nostri clienti – soprattutto da uno che era e resta per noi molto importante – che vedevano nella costruzione degli stampi in Cina un vantaggio economico. Questo nel tempo si è ridotto, però rimane un beneficio enorme sul fronte della gestione dei progetti perché le aziende cinesi che lavorano nel campo che ci interessa sono mediamente molto più grandi di quelle rimaste in Italia dopo la crisi del 2008-2009 e con loro si riescono a ottenere anche 15-20 stampi alla volta in pochissime settimane e da un solo fornitore. In Italia per gestire una simile mole di lavoro bisognerebbe ripartire la commessa su enne fornitori e ci vorrebbero mesi e mesi di sviluppo». Però dal punto di vista psicologico, confessa Mariacristina, è stato un momento faticoso: «Non vorrei usare la parola nazionalismo, ma avremmo preferito continuare ad alimentare i nostri fornitori italiani. Tuttavia per onestà devo dire che, facendo una comparazione con la media delle realtà industriali che abbiamo qui in Nord Italia, le tecnologie più avanzate le ho viste presso quelle cinesi. D’altronde mi risulta che il governo cinese sovvenzioni fortemente le imprese, e questo è un grande aiuto. Ma resta il fatto che sono anche molto veloci e strutturate in termini di project management». A me resta invece una perplessità: l’approccio che potrei definire ricattatorio che spesso le grandi aziende hanno nei confronti dei loro piccoli fornitori, ma questo è, è il business, bellezza.

Icon. Nel cerchio di un’idea dell’artista modenese Alice Padovani, è stata realizzata in occasione del 50° anniversario di GHEPI.

Presa la decisione il passo successivo è stata una scrematura dei possibili interlocutori: «In Cina ai tempi c’erano anche aziende con le macchine appoggiate sulla terra battuta. Noi abbiamo voluto verificare le situazioni di persona, andando sul posto, non dico che abbiamo chiesto di vedere i contratti di lavoro che applicavano, ma abbiamo comunque cercato di capire il più possibile quali fossero i loro sistemi di gestione, anche relativamente ai dipendenti. Abbiamo escluso le aziende che praticavano prezzi troppi bassi pur trovandoci nella necessità di raggiungere quell’equilibrio che ci avrebbe consentito di restare competitivi agli occhi di chi ci aveva posto l’aut-aut tra il lavorare con fornitori cinesi o rinunciare alle loro commesse. Abbiamo puntato su aziende che frequentavano le fiere internazionali e che perciò contavano tra i loro clienti le principali case d’auto americane o europee, quelle che potevano dimostrare di avere ambienti di lavoro di standard elevato. Grazie all’attenzione a tutti questi fattori ci siamo creati un pool di partner con alcuni dei quali lavoriamo ancora oggi, mentre con altri il rapporto si è interrotto sia perché la qualità del loro lavoro non si è mantenuta al livello che ci serviva sia perché le relazioni non erano così buone. No, non è stato facile».

Perfezione, difetto zero sono le due parole d’ordine che regnano nel campo di GHEPI. Mariacristina ci porta l’esempio di Tetra Pak, con cui la sua azienda ha collaborato per una quindicina d’anni producendo i sistemi di chiusura dei brick: «Lì sono richiesti stampi che garantiscano una produzione continua, che non facciano insorgere rischi di fermi produttivi ed è proprio per questo motivo che l’azienda non bada a spese nella loro costruzione. Hanno una competenza elevatissima e ti spingono a cercare sempre le soluzioni più avanzate in nome proprio di quella perfezione di cui parlavo. Lo stesso accade con alcuni clienti per cui produciamo articoli nei quali l’estetica è importante, come per esempio i lettori di codici a barre: non importa se dopo poche ore di utilizzo l’oggetto magari è già graffiato, al momento della consegna non viene tollerato alcun difetto». Mi sembra di percepire nella voce di Mariacristina un certo orgoglio per la capacità di far fronte a richieste così sfidanti, così come leggo una nota di frustrazione irritata quando racconta di clienti, potenziali e non, che non hanno competenze specifiche, non conoscono la tecnologia dello stampaggio a iniezione e la sottovalutano e quindi guardano sostanzialmente solo al prezzo o quasi: «Succede poi di incontrare clienti che lamentano criticità di fornitura e di qualità con i loro fornitori – continua Mariacristina – e, al momento di proporre le nostre soluzioni, di scoprire che hanno acquistato stampi a prezzi irrisori. Sono casi in cui preferiamo rifiutare la commessa in quanto non riteniamo professionale questo genere di collaborazioni». «Avvilimento» è la parola che usa Mariacristina che è ben conscia di quanta attenzione richiedano i suoi prodotti, tanto più che il tratto distintivo dell’attività di GHEPI è il metal replacement, la sostituzione dei metalli con polimeri ad alte prestazioni, che richiede «a monte una vera e propria ricerca e sviluppo, non solo progettazione, perché devi individuare anche i giusti materiali da utilizzare per andare incontro ai requisiti di prodotto che il cliente esige. Questo è un ambito che ci appassiona e nel quale i clienti ottengono spesso risultati che non si aspettavano».

Metal Replacement.

Il mercato a cui GHEPI si rivolge è essenzialmente quello nazionale con una quota di export che si aggira intorno al 20%. Invece i settori sono tantissimi e molto diversi tra loro: «È stata una scelta già dei miei genitori ma che abbiamo deciso di mantenere trasformandola anzi in un nostro tratto caratteristico. Addirittura potrei dire che è strategica perché avvicinarsi a un settore nuovo ti consente ogni volta di conoscere aspetti e soluzioni che entrano in un know how applicabile successivamente, in modo innovativo, in settori differenti». E tra questi troviamo al primo posto per numerosità i produttori di macchine per packaging, che si tratti del confezionamento delle bustine di tè e tisane oppure di quello delle vaschette per gli alimenti dei supermercati oppure ancora delle sigarette. Ma nel palmarès dei clienti troviamo anche nomi importanti nell’ambito delle macchine per il giardinaggio, dei macchinari da palestra, del trattamento delle acque reflue, dei lettori di codici a barre, della meccatronica.

La storia di GHEPI comincia nel 1972 quando Nemesio Gherpelli e Maria Gabriella Pinotti, marito e moglie, decidono di unire le loro forze e i loro sogni per creare un’impresa che viene battezzata con la prima sillaba dei loro cognomi: la forza di un legame estrinsecata nella scelta del nome. Fino a quel momento Nemesio ha lavorato nel campo delle automazioni, dello stampaggio a iniezione e della costruzione degli stampi, Maria Gabriella invece fa la magliaia, entrambi con una sapienza artigiana, una capacità «del fare», coniugata al desiderio di concretizzare una visione tant’è che avevano frequentato, ancora prima di fondare l’azienda, una sorta di corso di gestione amministrativa. La spinta definitiva viene da un dissapore tra Nemesio e il suo datore di lavoro, non così grave a detta di Mariacristina, ma tale da indurlo a fare quel passo di cui evidentemente da tanto tempo aveva voglia. Tanto più che le molte aziende che lo conoscevano come dipendente e ne apprezzavano le capacità gli avevano promesso del lavoro nello stesso campo in cui la GHEPI di oggi opera, cioè la sostituzione di componenti in metallo con equivalenti in polimeri più tecnici.

Foto della famiglia Gherpelli: da sinistra a destra, Elisabetta, Angela, Mariacristina, Nemesio con la moglie Maria Gabriella.

Nemesio e Maria Gabriella sono, più che complementari, perfettamente in sintonia: lui tutto innovazione – «ha sempre voluto tecnologie all’avanguardia non solo per una maggiore qualità della produzione, ma anche perché, a suo parere, le persone lavorano più volentieri su macchinari innovativi che non su quelli obsoleti» ricorda Mariacristina – e formazione «per curare la crescita professionale dei collaboratori e motivarli»; lei, che nella neonata azienda si occupa dell’amministrazione, attenta al lato umano nelle politiche gestionali e a tutti quegli aspetti che contribuiscono a fare del luogo di lavoro un ambiente dove si sta bene, dove c’è

Recapiti
Anna Brasca