Giornata Mondiale delle Api: è tempo di protezione - OIPA Italia

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Il pungiglione: zzz….uno solo non basta!

Via di qui!”gridò l’ape regina adirata quando una grossa mano pelosa si infilò nel suo alveare. Ma la mano spinse da parte la regina furiosa e le sue operaie e raccolse tutto il loro prezioso miele dorato. “Non possiamo andare avanti così”, sospirò l’ape regina disperata. “Ogni volta che riusciamo a riempire l’alveare di miele qualcuno fa irruzione e ce lo ruba tutto”.

Così inizia la favola di Esopo intitolata “Come le api ottennero il pungiglione”, una favola dove l’autore ci porta con l’immaginazione nel mondo delle api, invitandoci ad immedesimarci nella loro vita.

Stanche di essere costantemente derubate del frutto del loro lavoro, sciamano verso l’Olimpo per chiedere a Zeus di trovare una soluzione. Zeus decide di fornire loro un’arma, il pungiglione, così da potersi difendere dalle continue intrusioni. Raccomanda le api di usare questo strumento con parsimonia, in modo tale da concedere ogni tanto alle persone di prendere un po’ di miele. Le api, però, iniziano ad approfittare di quest’arma: pungono non solo chi tenta di rubare il loro cibo, ma anche chi osa solo avvicinarsi all’alveare. Contrariato, Zeus decide di punirle: le api sarebbero state costrette a usare il pungiglione solo in caso di estrema necessità, poiché, una volta punto qualcuno, sarebbero morte.

Pur non avendo un intento animalista, questa favola ci porta a riflettere sul concetto di “furto” di una risorsa alimentare che le api producono per il proprio sostentamento.

Il miele è il frutto di un processo digestivo messo in atto dalle api “bottinatrici”, ricavato dal nettare che prelevano dai fiori e da alcune piante. Con quest’attività esse contribuiscono anche all’impollinazione, fondamentale per la riproduzione di alberi, piante e fiori.

L’apicoltura, già praticata nell’antico Egitto, si è specializzata nel corso dei secoli. Oggi è considerata una branca della zootecnia e viene insegnata in numerosi corsi di laurea. Si distingue in apicoltura esercitata da piccoli produttori e in quella di tipo industriale, che produce il miele impiegato nei prodotti alimentari e che utilizza metodi poco rispettosi nei confronti delle api e dell’ambiente (antibiotici, sostanze chimiche, poca accortezza nel maneggiare le arnie). I piccoli produttori, invece, cercano, in una certa misura, di rispettare il ciclo naturale dell’alveare. Tuttavia, anche l’allevamento di api su piccola scala ha un unico scopo: quello di garantire un ritorno economico mediante lo sfruttamento dei prodotti dell’alveare (miele, pappa reale, polline, propoli, cera, veleno). Questa tecnica interferisce con la vita di questi importantissimi insetti e la dirige a favore dell’uomo (anche nel caso di un allevamento di tipo biologico).

L’arnia è l’abitazione dove l’apicoltore fa confluire un alveare, ossia una colonia di api costituita da un’unica regina, dai fuchi (maschi), dalle api operaie e dalle larve.

Le arnie vengono dotate di melari, delle cassettine poste una sull’altra dove le api depositeranno il miele che sarà prelevato dall’apicoltore. Tale appropriazione viene giustificata in base a questa supposizione: il miele deposto nei melari è in eccesso, non serve per il sostentamento della colonia. Questa considerazione, è, però, poco convincente: come essere certi che, in determinati casi (inverni molto rigidi e lunghi ad esempio) non possa essere impiegato? E quand’anche fosse in eccesso, perché appropriarsi di un prodotto che non ci appartiene e di cui, oltretutto, non abbiamo bisogno per sopravvivere? Così come il latte di mucca, di capra, di pecora è specie-specifico, allo stesso modo lo sono tutti i prodotti dell’alveare, necessari al sostentamento delle api, e non degli umani.

Allo scopo di rendere maggiormente produttiva la colonia, vengono inoltre impiegati dei ferormoni artificiali. Discutibile è anche il sistema impiegato per far visita all’alveare: l’affumicatura dello sciame. Mediante un soffietto si spruzza del fumo che fa sentire le api in pericolo e le induce ad ingozzarsi di miele per prepararsi alla fuga. Così imbottite, diventano più docili, cosa che consente all’apicoltore di valutare lo stato dell’alveare senza essere disturbato. Ogni visita è definita “stressante” per lo sciame e, per fortuna, consigliata dai produttori più accorti solo quando necessaria.

L’ape regina, deputata a deporre le uova e fondamentale per la sopravvivenza della colonia, vive in natura per circa cinque anni, mentre nell’allevamento (se non biologico) viene sostituita dopo due o tre anni, quando invecchiando, diventa meno produttiva. Inoltre, per evitare la sciamatura della colonia (evento naturale che avviene quando in un alveare la popolazione è numerosa) gli apicoltori eliminano le celle reali, impedendo la nascita di altre regine (momento che determina la partenza della regina originaria assieme ad una parte delle api). Oppure si pratica la sciamatura artificiale, ossia la suddivisione della colonia in più famiglie, interferendo così nel ciclo naturale dell’alveare.

Molti apicoltori si sono poi specializzati nella selezione delle regine, il cui scopo è individuare delle razze più docili, più produttive, più resistenti alle malattie e a bassa sciamatura. Questa pratica comporta l’inseminazione artificiale della regina, che può essere indotta in un’area naturale, ma anche praticata in un laboratorio. In questo caso non solo vengono uccisi molti fuchi (per estrarre lo sperma), ma si impedisce alla regina di praticare il così detto “volo nuziale”, evento che si verifica una sola volta e durante il quale viene fecondata per tutta la durata della sua vita.

La selezione delle api, per di più, ha prodotto degli incroci che hanno causato gravi danni. E’ il caso della Danimarca, dove a seguito dell’allevamento delle regine del ceppo Buckfats (che racchiuderebbe in sé le migliori caratteristiche di un’ape d’allevamento), tra le api si diffuse non solo la peste americana, determinando una moria senza precedenti, ma si creò un razza che alla seconda generazione divenne molto aggressiva. Alla luce di tutte queste considerazioni, l’apicoltura non può che apparirci come una tra le tante attività manipolative a cui l’uomo sottopone alcune specie animali. Lo scopo è sempre lo stesso: appropriarsi di un qualcosa che non gli appartiene, ma che pretende come proprio, solo perché possiede la forza e la tecnica per sottrarlo a chi ne avrebbe realmente diritto. Peccato che Zeus non sapesse come sarebbe andata a finire.

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