Gaza. Quel silenzio complice - Azione Cattolica Italiana

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Cara Azione cattolica, in un mondo in cui l’informazione viaggia più veloce dei razzi che cadono su Gaza, non possiamo più permetterci il lusso dell’ipocrisia. Il tempo dei doppi standard è finito. Il silenzio, oggi più che mai, è una complicità attiva. È una bomba sganciata con discrezione. È un’arma che non fa rumore, ma uccide ugualmente.

La differenza di trattamento tra i conflitti globali è un’ingiustizia che grida vendetta. Abbiamo assistito – giustamente – a una mobilitazione senza precedenti a sostegno del popolo ucraino, invaso da una potenza straniera. Abbiamo visto i media occidentali riempirsi di bandiere gialloblu, i governi stanziare miliardi, la solidarietà umana trasformarsi in aiuto concreto. Ma di fronte al genocidio in corso a Gaza, il mondo trattiene il fiato. O, peggio, tace.

Come se ci fossero morti di serie A e morti di serie B. Come se esistessero guerre giuste e guerre tollerabili. O Come se la geografia o il colore della pelle determinassero il grado di pietà, il tempo di copertura mediatica, la legittimità dell’indignazione. È un meccanismo perverso, che ha trasformato la sofferenza in un algoritmo gerarchico, dove alcune vittime meritano prime pagine e altre solo l’oblio.

Israele, uno Stato che si proclama democratico, agisce con metodi da Stato terrorista: bombarda navi con aiuti umanitari in acque internazionali, taglia cibo e acqua a oltre due milioni di civili, rade al suolo ospedali, scuole, interi quartieri. Secondo Amnesty International, Human Rights Watch e perfino un report dell’ONU, il sistema messo in atto da Israele nei confronti dei palestinesi corrisponde alla definizione legale di apartheid: una separazione sistemica, istituzionalizzata e razzista. Un crimine contro l’umanità.

I numeri parlano chiaro: decine di migliaia di morti, per lo più donne e bambini, sotto gli occhi del mondo. Un mondo che però sceglie, seleziona, distingue, giustifica. Perché?

Perché a Gaza non ci sono interessi strategici? Oppure perché i morti palestinesi non valgono quanto quelli europei? Perché chi denuncia questi crimini viene etichettato, silenziato, messo alla gogna?

Non si tratta di schierarsi contro un popolo, ma contro un governo che infrange sistematicamente il diritto internazionale. È possibile – e doveroso – denunciare i crimini di un regime senza essere accusati di antisemitismo. È possibile difendere la dignità dei civili palestinesi senza negare quella degli israeliani. La sofferenza non è una gara: il dolore di una madre israeliana il 7 ottobre è identico a quello di una madre palestinese che perde tre figli sotto le macerie a Rafah. Ma a differenza della narrazione che ci viene servita, c’è un contesto, una causa e, soprattutto, c’è un modo per fermare tutto questo.

Il genocidio non è un’opinione. È un fatto. E chi oggi lo guarda in silenzio, chi sceglie di non vedere, chi si rifugia in un comodo equilibrio, si rende complice. Il silenzio è una forma di violenza. È il carburante che alimenta ogni futuro crimine.

Eppure, ciò che resta ancora più inascoltato è la voce di tanti ebrei, dentro e fuori Israele, che si oppongono con forza al proprio governo. Uomini e donne che denunciano apertamente le politiche terroristiche, la distruzione sistematica, la morte per fame dei bambini, i massacri. Associazioni come Jewish Voice for Peace, negli Stati Uniti, gridano da anni contro l’apartheid israeliano e chiedono il rispetto dei diritti umani per i palestinesi, opponendosi pubblicamente alla violenza e al sostegno militare degli Stati Uniti a Israele. In Israele, organizzazioni come B’Tselem – autorevole centro per i diritti umani – hanno definito apertamente il regime imposto ai palestinesi come un sistema di apartheid. Denunciano, documentano, resistono. E spesso pagano un prezzo altissimo per il loro coraggio.

Come possiamo non credere a chi, parte di quella stessa società e di quella stessa religione, afferma con lucidità e dolore che tutto questo è falso, sbagliato, disumano? Come possiamo non accettare, almeno, la loro versione? Anche queste voci vengono silenziate, ignorate, etichettate come traditrici. Ma è proprio in esse che risuona la dignità di un popolo che rifiuta di essere complice, che sceglie la giustizia anche a costo dell’isolamento.

Papa Francesco ha parlato più volte di “martoriata Gaza” e di “guerra che è sempre una sconfitta”, ammonendo il mondo a non restare indifferente davanti alla sofferenza degli innocenti. Le sue parole sono chiare: “Uccidere bambini è disumano. È un crimine. È il contrario dell’umanità.” Ma queste parole, purtroppo, sembrano risuonare nel vuoto di un’Europa selettiva e di un’umanità sempre più anestetizzata.

Non si può più girare la testa dall’altra parte, quando a Gaza l’orrore è così chiaro, così crudo, così documentato. Non quando i finanziamenti di Stati “democratici” sostengono attivamente la distruzione di un popolo. E non quando l’umanità è ridotta a un algoritmo di interessi geopolitici.

Mai più. Così si giurò all’indomani dell’Olocausto. Eppure, oggi, nel silenzio assordante della comunità internazionale, nella complicità di chi osserva e non agisce, gli orrori della storia si stanno ripetendo. Non esiste un popolo eletto che possa arrogarsi il diritto esclusivo di ricordare la propria sofferenza per giustificare l’oppressione di un altro. Il genocidio subito non può mai essere un lasciapassare per infliggerne uno nuovo. Il dolore non può essere monopolizzato. La memoria non può essere armata, la giustizia non può essere selettiva. Non ci può essere pace senza giustizia, né giustizia se non per tutti. Senza distinzione alcuna.

Il mondo ha già sbagliato troppe volte nella storia. Stavolta, però, non potremo dire “non lo sapevamo”. Perché lo sappiamo. E perché non c’è più tempo.

Recapiti
Elia Giovanni