Intervista a Guido Chiesa e Nicoletta Micheli
Come siete arrivati a trasporre per il cinema il romanzo “Per amore di una donna” di Meir Shalev?
Guido Chiesa – È un progetto a cui, circa 20 anni fa, erano molto interessati Gabriele Salvatores e il produttore Maurizio Totti della Colorado, che avevano scoperto il romanzo grazie a Enrico Levi.
In quegli anni furono realizzate varie versioni della sceneggiatura con diversi autori, che si basavano esclusivamente sul libro, adottando quella sorta di realismo magico, sulla falsariga di Bulgakov, Gogol o Marquez. Nessuna di queste versioni della sceneggiatura riuscì a diventare un film.
Totti mi chiese di leggere il romanzo una prima volta nel 2010, ma non ne rimasi particolarmente colpito. Me lo ripropose nel 2018 e questa volta, invece, al di là della magmatica scrittura di Shalev, vi trovai la traccia di una possibile – e potente – storia per il cinema.
Lo feci leggere alla sceneggiatrice Nicoletta Micheli che lo trovò interessante e così provammo a scrivere una prima versione del copione basata sul romanzo. Anche il nostro tentativo però si rivelò infruttuoso: alla storia mancava un “tirante”, qualcosa che ai nostri cuori, e agli occhi degli spettatori, potesse diventare un motivo per appassionarsi alla storia, uno spazio in cui calarsi e tirar dentro chi avesse visto il film.
Nicoletta Micheli – Nel romanzo di Shalev tutta la storia è raccontata da un punto di vista maschile, quello di Zayde, il figlio con tre padri. Lui conosce già tutta la vicenda e il romanzo gli svela, attraverso la figura di Yaakov, come essa vada letta nell’ottica di un destino tragico, e se vogliamo incomprensibile, da cui gli esseri umani non possono sfuggire. Questa prospettiva non ci appartiene e ci rendeva difficile .
Allora abbiamo incominciato ad analizzare a fondo la storia narrata del romanzo alla ricerca di una diversa prospettiva, che raccontasse i medesimi fatti ma in luce diversa. Abbiamo trovato un particolare che Shalev menziona appena: Yehudit, la donna che aveva scatenato il desiderio dei tre padri, aveva avuto una bambina, che le era stata portata via in maniera violenta dal marito. A quel punto ci siamo chiesti che cosa sarebbe accaduto se questa bambina, un giorno, avesse ricevuto da sua madre una lettera, una sorta di testamento scritto prima della morte, in cui le raccontava che nella sua vita c’era un segreto.
Guido Chiesa – Inizialmente si è trattato di un espediente per rendere la narrazione più intensa e intrigante ma poi, col tempo, ci siamo accorti che questo nuovo personaggio poteva rappresentare il nostro sguardo e, di conseguenza, anche quello dello spettatore, per entrare in un mondo che non conoscevamo.
Noi al di là della fascinazione e certa letteratura ebraica, a cominciare dalla Bibbia, non eravamo mai stati in Israele e conoscevamo poco della società e della cultura ebraica.
Nicoletta Micheli – Abbiamo compiuto così un piccolo tradimento del romanzo, prima di tutto come prospettiva. Nel libro c’era una sorta di visione pessimista sulle vicende umane, che noi non condividiamo perché crediamo che gli esseri umani possono cambiare la Storia, a cominciare dalla loro. Esther, il personaggio che abbiamo creato, non solo ci ha aiutato a rendere più accattivante e intrigante il racconto, ma ci ha anche permesso di sfrondare l’intreccio del libro che ha uno sviluppo a spirale, in cui si sa da subito come il racconto andrà a finire, senza l’interesse di condurre il lettore dentro a una qualche forma di scoperta. Attraverso Esther, invece, lo accompagniamo a dipanare un mistero, e riportiamo quella che è la storia del libro dentro il nostro mondo, dentro un realismo dove la risoluzione della storia si lega a un filo di speranza, a una risoluzione positiva che nel romanzo non c’ è.
Guido Chiesa – Nello sguardo della donna che scopre la storia sua e della sua famiglia, poi ci siamo anche noi, italiani non ebrei, che sapevamo poco o nulla della migrazione da fine ‘800 degli ebrei in quella terra, prima sotto dominio turco poi britannico, per sfuggire alle persecuzioni, specie nei paesi dell’Est europeo (pensiamo allo zarismo, al comunismo, al nazismo e via discorrendo). Io ero convinto che fossero per lo più motivati dal fattore religioso, e invece molti di quei giovani erano atei, eppure si identificavano profondamente nella storia e nella cultura ebraica. I fondatori dei kibbutz e di analoghe esperienze di lavoro collettivo, ad esempio, erano giovani colti, legati all’esperienza della sinistra europea, già con il progetto di costruire una nuova società, egualitaria e solidale, quando non era ancora nemmeno nata l’idea di uno stato di Israele.
Poi è andata diversamente, ma il loro obiettivo era quello e noi attraverso gli occhi della nostra protagonista scopriamo una realtà che non conoscevamo perché ormai soffocata e fagocitata dai conflitti esplosi dopo il 1948.
Si tratta in qualche modo di un film politico?
Guido Chiesa – No, ma il senso profondo che lo attraversa può assumere un valore altamente politico: anche durante i momenti bui della Storia, donne e uomini si innamorano, formano famiglie, comunità, nascono bambini. E allora non c’è più distinzione tra passato e presente, o tra culture e popoli, e possiamo riconoscerci parte di uno stesso destino comune e universale dove l’amore ha una funziona salvifica.
Nicoletta Micheli – Nel film la Storia resta sullo sfondo, non è centrale. Anche il romanzo era interessato ad altro, eppure quella vicenda non poteva essere collocata in un altro contesto dello stesso periodo storico. L’esperienza che ha poi condotto alla nascita di Israele è stata una sorta di esperimento sociale unico, incentrato sulla solidarietà collettiva, lo spirito egualitario nel rapporto uomo-donna e una libertà nei rapporti personali impensabile per l’epoca.
I giovani che fondavano i kibbutz sono stati dei pionieri non solo per Israele ma per l’intera Europa.
Guido Chiesa – Se ad esempio avessimo trasferito la vicenda nel contesto degli immigrati italiani in Australia o in America, avremmo dovuto confrontarci con un mondo invece completamente diverso, con rapporti uomo/donna decisamente più tradizionali e arretrati. La storia di una contadina che viene amata contemporaneamente da tre uomini e ricambia il loro amore, portata in un altro contesto della stessa epoca avrebbe dato tutt’altri sviluppi.
Perché il film è raccontato con due stili diversi?
Guido Chiesa – “Per amore di una donna” è un film con due anime, che man mano si intrecciano fino a diventare una sola. Un’anima sofferente, scolorita, come spenta, quella del presente della storia, il 1978 perché all’inizio del film Esther e Zayde sembrano aver smarrito la voglia di cambiare, di mettersi in gioco, negli affetti come nei progetti di vita. Ed è proprio in questo frangente di vita che si ritrovano a fare i conti con un passato che non vuole passare. Quest’anima priva di mordente si traduce in colori sbiaditi, con pochi contrasti e luci fredde. Le inquadrature sono strette sui personaggi, fisse, quasi claustrofobiche, dove i due protagonisti sembrano intrappolati, senza possibilità di reale movimento Il montaggio è serrato, nervoso, ricco di dettagli ma con un dinamismo solo apparente. La musica è quasi assente, per lo più proveniente da fonti diegetiche.
A quest’anima sospesa e grigia, si contrappone quella dalle tinte calde e sature del passato. In quanto filtrata dai ricordi di Zayde la rappresentazione del mondo degli anni ’30 è realistica, ma con una cifra lirica e leggendaria, senza tuttavia mai scivolare nella nostalgia. Un’anima che porta il film ad aprirsi a inquadrature più larghe, con grandi contrasti di luci naturali, più movimenti di macchina e con lunghe dissolvenze. La colonna sonora è dominata da suoni naturali – uccelli, acqua, muggiti, rumori dell’agricoltura e dei lavori delle fattorie – che si fondono in un universo musicale fatto di archi e tappeti melodici, classico eppure sperimentale. La musica assume un ruolo epico, a tratti incantato, a tratti drammatico, con energici contrappunti, senza mai rinunciare alle emozioni forti. Parimenti le scelte di montaggio si fanno più armoniche, eppure sorprendenti, con stacchi aggressivi e inattese ellissi perché in quel mondo la storia va avanti. Sempre e comunque.
Nicoletta Micheli – Man mano che Esther e Zayde si avvicinano alla scoperta della loro storia e dell’insospettabile legame che li unisce, le due anime del film si incontrano, e anche nella storia presente i colori diventano più vivaci e gradualmente il linguaggio delle immagini e dei suoni si fondano in un unico registro. Perché le vite dei nostri protagonisti hanno ripreso a muoversi. Il passato è dietro le spalle, e, finalmente consapevoli di tutto il bene e di tutto il male che hanno attraversato loro e i loro antenati e tutte le cose belle e spiacevoli che sono accadute, i due si avviano verso un futuro aperto, un nuovo inizio.
Dove e quando avete girato?
Guido Chiesa – Le riprese sono avvenute principalmente in Sicilia, perché dopo vari sopralluoghi in Israele, abbiamo constatato sia che i costi erano troppo elevati sia che non esisteva più niente di quel mondo raccontato nel libro. Il Paese in meno di 100 anni era diventato ultramoderno.
Siamo così andati a girare in un villaggio della riforma agraria, costruito negli anni ’50 nel comune di Monreale, tra Alcamo e Gibellina. Un villaggio architettonicamente molto simile a quello delle comunità rurali costruite in Palestina bei primi anni del secolo scorso. Abbiamo poi girato a Palermo una parte degli interni e in seguito alcune sequenze in Israele in luoghi non reperibili in Italia, come Gerusalemme il deserto o l’università.
Abbiamo terminato le riprese a gennaio del 2023, ma dopo il pogrom del 7 ottobre e la situazione che si è successivamente creata nella Striscia di Gaza, nessuno voleva il film per evitare polemiche e controversie a causa dell’’ambientazione in Israele, anche se la storia non ha nulla a che fare con il conflitto arabo israeliano.
Poi la Fandango ha scelto di distribuirlo senza preoccuparsi del rischio di eventuali contestazioni e lo ha presentato a marzo al BiFest di Bari dove ha vinto il premio come miglior film, votato all’unanimità da una giuria popolare di 30 persone di età dai 18 ai 70 anni.
Ho saputo in seguito che in un primo momento due giurati avevano espresso qualche perplessità sull’opportunità di assegnare un premio a un film ambientato in Israele, ma i coordinatori della giuria hanno fatto notare che andava giudicata la qualità dell’opera, non l’opportunità o meno di assegnargli un premio. A loro sostegno è intervenuta una donna egiziana, membro della giuria, che ha dichiarato di non aver riscontrato nel film nulla che, in quanto araba, la potesse offendere e che il modo giusto per valutare un’opera fosse un approccio senza pregiudizi.
Puoi raccontare qualcosa a proposito della scelta degli attori?
Guido Chiesa – Il casting è stato lungo e impegnativo, però molto affascinante. Gli interpreti sono di una decina di nazionalità diverse. Volevamo che a interpretare i coloni fossero attori provenienti dall’ex Russia, Polonia, Romania, Germania, perché erano i paesi da cui erano arrivati i protagonisti di quella esperienza. Avremmo voluto girare in yiddish, una sorta di ebraico misto a tedesco e altro, che era diventato l’idioma comune dei coloni, i quali non conoscevano l’ebraico classico e parlavano tutti lingue diverse.
Alla fine abbiamo scelto di girare in inglese perché per gli attori era l’unica lingua comune praticabile, conservando però la prerogativa che tutti lo parlassero con il proprio accento di provenienza. Per questo il film, nella sua edizione originale, ha una profondità espressiva che si perde con il doppiaggio (che oltretutto snatura il rapporto voce/corpo che è essenziale nel lavoro di un attore).
L’unico che nella versione doppiata parla sempre con la sua voce è l’italiano Vincenzo Nemolato, interprete di un personaggio già presente anche nel libro, un bizzarro soldato napoletano fuggito da El Alamein, che ridona energie e speranze al sognatore Yaakov.
Come sono andate le riprese?
Guido Chiesa – Non avevamo a disposizione un grande budget e ci sono stati i soliti piccoli compromessi con cui occorre sempre fare i conti, ma senza nessuna particolare tensione, perché la produzione e a tutti i reparti hanno fatto di tutto per darci quello che era necessario. Così come gli attori che hanno amato la sceneggiatura ed erano tutti molto motivati. È stato uno dei set più sereni e collaborativi della mia carriera.
Nicoletta Micheli – I responsabili dei vari reparti si sono appassionati alla storia e l’hanno voluta “interpretare” al meglio offrendo un valore aggiunto alla sua realizzazione. Si è trattato di un lavoro lungo, che ha conosciuto varie fasi, e poco per volta il film si è “costruito” quasi da solo.
Ancora oggi, guardandolo, scopro qualcosa di nuovo, come se la sua storia si fosse a poco a poco auto-rivelata, con la sua forza e i suoi significati, quello più letterale e altri più nascosti, come la necessità di andare sempre alle radici più profonde delle nostra vite. È questo il senso finale del suo curioso auto-realizzarsi, a volte ci accontentiamo di una verità superficiale quando invece in raggiungimento della interiore verità prevede sempre fatica e sofferenza.
Guido Chiesa: Me ne sono accorto quando abbiamo incominciato a fare leggere il copione agli attori o ai loro agenti: ognuno, partendo dalla propria storia personale vi ha ritrovato qualcosa sull’amore, sulla condizione femminile, sul rapporto con il passato. Tutti temi diversi ma universali. Penso, ad esempio, alla musicista Zoe Keating- Non l’avevo mai incontrata prima o durante la lavorazione del film (è accaduto solo qualche mese fa), ma conoscevo e amavo da tempo la sua musica e l’ho contattata tramite il suo agente. Lei ha apprezzato la sceneggiatura e ha accettato volentieri di collaborare, iniziando a scrivere la musica ancor prima di vedere il montaggio. Ha composto alcuni brani quasi senza mie indicazioni. In alcuni casi è stata lei ad indicarmi zone del racconto in cui a suo parere potevano essere giusti. Con Zoe è nata una comunicazione non verbale e non mediata, ma più istintiva e intuitiva, dove lei coglieva certe cose che io non avevo capito e non sapevo. Si è trattato insomma di un continuo arricchimento.