Ceto medio. La spina dorsale dimenticata - Azione Cattolica Italiana

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C’è una parte d’Italia che continua a credere nel valore dell’istruzione, della responsabilità familiare, dell’etica del lavoro. Un’Italia che non alza la voce, ma regge ancora – con fatica – l’intera impalcatura sociale ed economica del Paese. È il ceto medio: un corpo sociale vasto, eterogeneo, ma sempre più affaticato, fragile, invisibile.

Il recente Rapporto Cida-Censis (qui una sintesi) fotografa questa realtà con precisione e preoccupazione. Due italiani su tre si riconoscono in questo ceto, ma non più – come un tempo – per il tenore di vita o per la sicurezza economica. A definire oggi l’identità del ceto medio è il livello culturale, inteso come competenze, titolo di studio, sensibilità sociale. È una consapevolezza nuova, che fa del sapere non una via per l’ascesa sociale, ma una condizione da difendere, spesso a costo della delusione o dell’esilio.

Il dato più amaro, infatti, è che più della metà dei genitori di ceto medio auspica per i propri figli un futuro all’estero. Non perché l’Italia non abbia bisogno di loro, ma perché – come testimonia il rapporto – sempre più persone avvertono che questo Paese non sa riconoscere e valorizzare il merito. E quando il merito non viene premiato, la fiducia si incrina, e con essa il legame tra cittadini e istituzioni.

L’identità culturale non basta, se non incontra uno sguardo pubblico capace di riconoscerla. Oggi il ceto medio si sente punito da un fisco che disincentiva l’impegno, da un welfare che arretra, da servizi pubblici che non tengono il passo con le attese. Il rischio è che questo ceto, anziché rappresentare il ponte tra le classi sociali, finisca per diventare un nuovo fronte di marginalità silenziosa.

Eppure, proprio in questo corpo sociale vive una riserva di senso civico e coesione che il Paese non può permettersi di perdere. Famiglie che investono nell’educazione dei figli, anziani che continuano a sostenere economicamente figli e nipoti, lavoratori che chiedono solo di essere messi in condizione di fare bene il proprio dovere. È in questa Italia, spesso sommersa, che si custodisce ancora un patrimonio di sobrietà, di solidarietà quotidiana, di speranza operosa.

Il ceto medio non reclama privilegi, ma equità e ascolto. Chiede un fisco giusto, un welfare integrato e non residuale, un riconoscimento reale delle competenze. Soprattutto, chiede di poter essere parte attiva di un progetto collettivo. Dove le grandi decisioni non sembrino più calate da un “altrove” lontano, ma condivise e orientate al bene comune.

Non è un compito solo della politica. È la società tutta che deve interrogarsi: imprese, scuola, media, corpi intermedi. Perché se il ceto medio si ritira, a perdere non è solo una fascia economica, ma una cultura civile che ha garantito stabilità, inclusione, tenuta democratica.

È tempo di rimettere questa cultura al centro. Di ridare fiducia a chi ha sempre creduto nella forza del lavoro ben fatto, della conoscenza condivisa, della famiglia come presidio sociale. Di riconoscere che il vero sviluppo non passa solo dai numeri, ma dalla dignità delle persone e dalla qualità delle relazioni.

In un tempo segnato da incertezze globali e disuguaglianze crescenti, ridare dignità al ceto medio significa scegliere di ricostruire l’Italia. A partire da chi, ogni giorno, la tiene insieme in silenzio.

Recapiti
Antonio Martino