Dietro le parole più calde del linguaggio aziendale si nasconde un rischio culturale: perdere il senso dei ruoli, dei limiti e del lavoro come scelta professionale.
Dietro una delle frasi più abusate nella cultura aziendale si nasconde un rischio strategico: confondere affetto e organizzazione, e perdere di vista ciò che serve davvero per costruire imprese sane, sostenibili e coerenti.
Perché è una delle narrazioni più dannose in azienda (e cosa può costruire una cultura davvero sana)
“Innamorato della vita.”
Così si è presentato Andrea Cortese, founder di Mark it, durante un incontro al Festival Antiche Mura.
Una frase che ha spiazzato. E che ha aperto un dialogo profondo sul lavoro, sul senso delle parole e sulle narrazioni con cui (troppo spesso) cerchiamo di tenere insieme tutto ciò che nel lavoro fatica a trovare un posto.
Nel nostro lavoro (quello di Mark it) ci occupiamo ogni giorno di aiutare le aziende B2B a costruire strategie di marketing, comunicazione e posizionamento.
Ma sappiamo che il marketing non è solo cosa dici: è come pensi la tua impresa.
È il modo in cui scegli di rappresentarti, dentro e fuori la realtà aziendale.
Per questo oggi vogliamo mettere in discussione una delle frasi più abusate (e meno innocue) che circolano nel mondo del lavoro:
“Siamo una grande famiglia.”
Il problema non è solo semantico. È culturale, strategico, organizzativo.
La retorica della famiglia in azienda è pericolosa perché confonde i piani: affetto e contratto, appartenenza e prestazione, cura e dovere.
Quando diciamo “siamo una famiglia” non stiamo solo usando un’immagine calda: stiamo ridefinendo i confini tra ciò che è personale e ciò che è professionale. E il rischio è che questi confini vengano violati.
- Si legittima la reperibilità continua (“siamo una famiglia, posso chiamarti anche la sera…”).
- Si personalizzano i conflitti (“non ci sei rimasto male? Siamo una famiglia…”).
- Si colpevolizzano le uscite (“dopo tutto quello che abbiamo fatto per te…”).
Eppure, una strategia d’impresa efficace non ha bisogno di affetto: ha bisogno di alleanze chiare.
Ha bisogno di rispetto, trasparenza, ascolto.
Ha bisogno di riconoscere che le persone non sono lì per amore o dedizione, ma per lavoro (magari che amano, ma pur sempre un lavoro).
Il lavoro non è una casa. È un luogo.
Un luogo che può essere accogliente, stimolante, umano. Ma pur sempre un luogo.
Che funziona bene se chi lo abita:
- ha ruoli e responsabilità chiare,
- può portare il proprio punto di vista senza paura,
- ha diritto a esprimere bisogni e limiti.
Ecco perché, quando aiutiamo le imprese B2B a definire chi sono e dove vogliono andare, partiamo sempre da qui: una buona strategia nasce solo da una cultura organizzativa sana.
Altrimenti, anche la comunicazione più brillante si incrina.
Perché prima o poi la narrazione si scontra con la realtà.
Le organizzazioni non devono essere famiglie. Devono essere adulte.
Adulte nel senso migliore del termine: consapevoli, responsabili, capaci di accogliere il conflitto, non di evitarlo.
Adulte perché sanno che un’impresa può essere un luogo dove le persone stanno bene, ma non devono chiederlo come dovere morale.
Lo ha detto con chiarezza Andrea Cortese, durante l’incontro con lo scrittore Marco Carretta prima dello spettacolo Arbeit:
“Il lavoro è il collante tra le parti della nostra vita. Ma non può occupare tutto. Altrimenti, rischia di diventare una forma di annullamento.”
Una frase che vale doppio per chi guida un’azienda.
Perché il benessere organizzativo non è una coccola. È un investimento.
È più strategico avere un team che sa dire “basta” quando è troppo, che uno che va in burnout in silenzio.
È più solido un gruppo che ha confini chiari, che uno che si muove nella confusione emotiva.
È più duraturo un rapporto di lavoro fondato su rispetto e fiducia, che uno costruito su senso di colpa e obbligo affettivo.
Mark it: costruire strategie che non tradiscono la cultura
In Mark it lavoriamo ogni giorno con aziende B2B che vogliono ripensare il proprio modo di comunicare e organizzarsi.
Non solo per “piacere di più” ai propri stakeholder. Ma per essere coerenti. Perché la sostenibilità non è solo ambientale: è anche relazionale, narrativa, organizzativa.
Ecco perché non ci interessa alimentare slogan vuoti.
Ci interessa costruire strategie che funzionano nel tempo, perché sono radicate in una cultura d’impresa vera, lucida, consapevole.
Una cultura dove non serve più dire “siamo una grande famiglia”.
Perché si può dire molto di più (e molto meglio):
“Siamo una comunità professionale.
Ci rispettiamo, ci ascoltiamo, costruiamo insieme. E ci lasciamo liberi di crescere altrove, se è il momento.”
È da qui che nasce una strategia che ha senso. E un’organizzazione che ha futuro.
Vuoi capire se la tua cultura aziendale è coerente con la tua strategia?
Questa settimana esce il nostro Bilancio di sostenibilità 2024: un documento che racconta non solo cosa facciamo, ma come lavoriamo.