Workout Magazine - Studio Chiesa communication
Workout magazine incontra Alberto Uva Parea, imprenditore della cultura.
Diceva Truman Capote che quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione. Erano parole che esplicitavano il tormento della sua tensione alla perfezione nella scrittura e sottolineavano la fatica, fisica e psicologica, a legarsi a quel «nobile, ma spietato padrone» che era l’esercizio della penna. Affermazione che non sarebbe mai sottoscritta da Alberto Uva Parea, amante generoso, prima ancora che imprenditore, della cultura. In lui, al contrario, l’esplicitazione quotidiana dei due talenti naturali che si riconosce, entusiasmo e passione, gli generano un autentico e, potrei dire, gioioso godimento che emerge prepotente dai suoi racconti: « La soddisfazione che provo nell’ideare e poi nel realizzare, passo dopo passo come se stessi costruendo manualmente un oggetto, i miei progetti, mi motiva e mi spinge continuamente avanti e anche se talvolta ho una battuta d’arresto perché non sempre la vita va a mille all’ora, mi bastano un giorno o due per ribaltare la situazione e trovare uno spunto da cui ripartire» e rievoca divertito una cena nella villa di famiglia di Missaglia (un’iniziativa in favore del Campus Bio-Medico di Roma) con il celebre genetista Edoardo Boncinelli – da poco scomparso – che, dopo una serata passata fianco a fianco, immersi, si presume, in chiacchiere più o meno serie, gli aveva confessato che raramente aveva conosciuto nella sua vita una persona in grado di automotivarsi come lui.
Ride ma si capisce che lo consideri un grandissimo complimento, accolto però senza alcuna traccia di prosopopea, perché è la semplice attestazione di un lato di se stesso che conosce molto bene, fin da quando era ragazzo e anziché sognare di diventare medico o ingegnere, subiva la fascinazione della politica: «Fa parte del mio aspetto istrionico, adoro parlare in pubblico, catturare l’attenzione, creare una corrente di empatia». Logico che a un certo punto abbia tentato quella strada, che se l’ha deluso, come probabile, non l’ha lasciato però amareggiato: «Eravamo agli inizi degli anni Novanta e io avevo creato un’organizzazione interdisciplinare, la Milano Professional Group, che riuniva professionisti di varia e diversa estrazione, architetti, avvocati, commercialisti, medici e altri, con l’obiettivo, in quel momento di grande fermento della società civile, di portare idee e progetti sul tavolo della politica. Ai tempi la Lega era appena nata e aveva bisogno di ingaggiare figure che avessero un certo spessore e un significato nel territorio, così venni avvicinato. La proposta di fare il sindaco di Montevecchia, il Comune più prossimo a Missaglia, non mi interessava, però accettai di organizzare la campagna elettorale. Che fu, come dire, spumeggiante e per me estremamente divertente. E che a loro piacque, tanto che venni prima inserito in varie commissioni e poi proposto addirittura come candidato alle politiche nel collegio uninominale di Merate, il che significava un’elezione sicura e la strada spianata per Roma».
Alberto Uva però nutre dei dubbi. Se da un lato si sente stimolato dalla prospettiva, dall’altro è consapevole di non essere la persona che china la testa a ogni imposizione del partito e per di più in quel periodo si stanno delineando i primi dissidi tra Lega e Forza Italia su temi che non lo vedono allineato a posizioni che invece dovrebbe sposare senza se e senza ma. E così scompagina le carte: «A un certo punto su un giornale locale, la Gazzetta di Merate, è uscito un articolo, a mia firma, intitolato Lega, ultimo atto. Beh, se lo può immaginare: è scoppiato il finimondo». Viene «dimissionato», tra l’altro tra mille imbarazzi e difficoltà perché ormai la candidatura era stata ufficializzata, si recluta in fretta e furia un sostituto e al momento (ma non per sempre, come poi scoprirò) Alberto accantona la politica senza troppi patemi.
«Semplicemente sono tornato alla mia attività: avevo una società di formazione manageriale incentrata sulle skill comportamentali che ai tempi era qualcosa di assolutamente innovativo e l’avevo battezzata Global Brain per sottolineare l’importanza dell’integrazione dei due emisferi del cervello, quello più logico e quello invece emozionale. Ho lavorato molto con multinazionali e poi nella sanità lombarda per la quale avevo anche messo a punto un progetto sulla messa a norma degli ospedali sul tema della privacy». Poi la politica torna a riaffacciarsi: il nuovo millennio è appena iniziato e chi lo chiama è Roberto Castelli, vecchia conoscenza di Alberto Uva dei tempi delle sue frequentazioni della Lega e all’epoca Guardasigilli nel governo Berlusconi II. Chissà se Alberto si è mai pentito di aver risposto a quell’invito. Perché l’incarico che gli propone Castelli è di quelli da far tremare i polsi: fare il punto sull’efficienza della Giustizia nel nostro Paese creando un modello di valutazione della produttività degli uffici giudiziari, un progetto che venne allora definito dai media «l’attribuzione delle pagelle ai magistrati». Alberto difende il suo operato: «Noi svolgevamo il nostro lavoro in modo assolutamente indipendente, imparziale e libero da pressioni, eravamo a tutti gli effetti una parte terza che si avvaleva di consulenti di altissimo profilo specializzati nel performance management, ma il programma aveva una valenza politica fortissima e perciò siamo stati massacrati dalle polemiche». Cinque anni di lavoro, una sperimentazione su due tribunali pilota, una conclusione poi abbandonata in un cassetto perché nel frattempo il governo è cambiato.
È a quel punto che Alberto Uva entra nella seconda fase della sua vita dedicandosi a ciò che è sempre stata la sua vera passione: la storia. E alla sua divulgazione perché, dice, «la storia è sempre stata bistrattata, adulterata, strumentalizzata o comunque manipolata e quindi bisogna stare attenti a non confonderla con la marea sterminata di informazioni che ogni giorno ci travolge. La storia impone di risalire alle fonti, di fermarsi a riflettere, a non accettare ogni lettura di eventi in modo acritico. Però oggi, in un momento in cui dominano la polarizzazione e lo schieramento, proprio la storia è la bussola per capire dove siamo e in che direzione stiamo andando». E poi aggiunge che, a suo parere, c’è davvero fame di storia, «lo vedo ogni volta che apriamo la villa alle visite, il pubblico è vastissimo e include profili di tutti i tipi, anche di persone molto semplici».
La Villa. Luogo amatissimo da Alberto Uva (nonché dai suoi fratelli Carlo e Vittorio) che da ragazzo vi trascorreva le vacanze estive e adesso ci abita stabilmente. Un gioiello secentesco, costruito su una terrazza naturale che si affaccia su uno dei panorami più belli della Brianza. In realtà la sua origine è più antica perché risale al 1300 quando la famiglia Pirovano, l’antica Signoria del luogo, costruisce un palazzotto sui resti di un castrum romano. Di quei tempi resta, di suggestione straordinaria, la cappella gentilizia, restaurata negli anni Sessanta dal padre di Alberto, che vi rinvenne diversi reperti archeologici tra cui una punta di giavellotto, una frombola e una moneta con l’effigie dell’imperatore Tiberio risalente al 22 dopo Cristo. A costruire l’elegante corpo centrale, quello ancora oggi prospiciente il parco, è nel XVII secolo il condottiero e «Grande di Spagna» Paolo Giuseppe Sormani che nel 1648 viene, dall’imperatore Filippo IV, infeudato Primo Conte di Missaglia, su un territorio che allora era molto ampio e importante perché si estendeva su una larga fetta della Brianza. I Sormani sono rimasti proprietari della Villa fino ai primi del Novecento, trasformandola via via in un luogo di delizia – come era di moda tra il Settecento e l’Ottocento – mentre l’ala medievale si riduceva progressivamente a parte di servizio, relegata a ospitare le scuderie, i depositi delle carrozze, i torchi e le cantine. I Marzorati, i Parea, gli Uva arriveranno più tardi attraverso apparentamenti matrimoniali sicché oggi il nome completo di questo posto incantevole è Villa Sormani Marzorati Uva.
Ed è qui che Alberto Uva ha concepito e ambientato il suo progetto «Arte e Cultura Villa Sormani» che, spiega, ha tre finalità:« Innanzitutto la valorizzazione dell’identità culturale del territorio, importantissima in un momento in cui proprio le identità vanno sbiadendosi; secondariamente il racconto della storia di questa dimora che si sovrappone alla storia della Brianza in modo peculiare e diverso rispetto ad altre ville locali; infine la divulgazione dell’arte e della bellezza in modo innovativo, cioè cercando ogni volta di far vivere alle persone un’emozione che lasci una traccia spingendole magari a coltivare un gusto o anche solo a pensare. Ecco, per me questo, oggi, è il significato della parola “politica” che non deve essere intesa come un orticello coltivato da una parte o dall’altra dell’arco costituzionale, bensì come un servizio ai cittadini».
Ma se l’esperienza deve essere memorabile, che forma deve assumere? Alberto Uva si deve essere interrogato molto in proposito e le risposte che si è dato non sono banali e al contempo risultano perfettamente coerenti con lo spirito della Villa. Il primo evento, organizzato nel 2016, è stata una promenade in carrozza e in costumi d’epoca lungo le vie di Missaglia, seguita da un picnic nel magnifico parco della dimora: «Il paese era diventato una sorta di set cinematografico, la gente entusiasta, è rimasto nella memoria come un evento davvero unico». Il successo della risposta gli ha indicato chiaramente che la rievocazione storica, il «tuffo nel passato» come ama definirlo, hanno una forza di trascinamento che altre forme di racconto non hanno e da questa considerazione è germogliata l’iniziativa «La Grande Opera in Villa», ormai alla sua IV edizione.
«Mia nonna raccontava che, ancora ai suoi tempi, nella Sala della Musica della Villa si tenevano concerti da camera come forma di intrattenimento degli ospiti. Analogamente, nel Settecento e nell’Ottocento nei palazzi aristocratici si rappresentavano le opere liriche in forma ridotta con l’accompagnamento al pianoforte. E allora mi sono detto: perché non recuperare questa tradizione?». Mettiamo però un po’ d’ordine: non si tratta di eseguire delle arie, quanto di rappresentare opere complete secondo i dettami dell’opéra-comique che prevede un narratore, Gabriele Bolletta, che nel nostro caso è sia il direttore artistico del ciclo musicale sia il riduttore dell’opera sia uno degli interpreti nel ruolo di basso, che apre lo spettacolo e recita tutti i collegamenti che consentono di «accorciarlo» senza fargli perdere in interezza e comprensibilità. Ma l’aspetto forse più seducente è che il pubblico è a stretto contatto con i cantanti, li ha a pochi passi dalla propria sedia, viene a volte da loro interpellato direttamente se non addirittura trascinato nella rappresentazione. Esattamente quello che capitava nel passato agli illustri ospiti dei proprietari della Villa. Ovvio che gli spettatori devono essere in numero ridotto, 80-90 al massimo per la Sala della Musica, e questo spiega perché le prenotazioni vengano in genere prese d’assalto, soprattutto per alcuni titoli particolarmente famosi – e amati – come Madama Butterfly o il Trovatore o Don Giovanni.
«L’impegno è importante sia dal punto di vista organizzativo che da quello economico – spiega Alberto Uva – Ci sono cinque cantanti in scena, il maestro concertatore al piano e l’opera viene sempre introdotta da Silvia Corbetta, musicologa, scrittrice e musicista lei stessa, che ha il compito di cominciare ad avvolgere il pubblico nello spirito dello spettacolo con aneddoti, ma anche notazioni colte». Senza dimenticare i sontuosi costumi di scena forniti da una delle sartorie storiche teatrali più note a livello nazionale: la Sartoria Bianchi di Milano.
Un altro aspetto insolito di queste rappresentazioni è la volontà di coinvolgere non solo l’udito e la vista, ma anche gli altri sensi degli spettatori. Per questo motivo vengono distribuite delle essenze, create appositamente per l’occasione da Maestri Profumieri di Firenze e che sono in qualche modo collegate all’opera e al compositore: l’invito è di odorarle di tanto in tanto nel corso dello spettacolo per una sua perfetta fruizione. E se invece parliamo del gusto, al termine