Siamo ancora capaci di viaggiare davvero? La Checklist Era ha trasformato il viaggio in un consumo seriale. Scopriamo come uscirne, prima che collassi.
di Ruben Santopietro
C’è stato un tempo in cui viaggiare significava scoprire. Non sapere cosa ci fosse dietro la curva. Essere sorpresi da un gesto, da un accento, da un paesaggio che non somigliava a nulla di familiare.
Oggi, troppo spesso, viaggiare significa spuntare.
Spuntare la lista delle cose da vedere. Le attrazioni da fotografare. I luoghi da mettere in curriculum per poter dire “ci sono stato”. Come se bastasse esserci per aver capito. Come se lo scopo del viaggio fosse completare una collezione, non vivere un’esperienza.
Questa fase, questo modo di vivere e consumare il turismo, l’ho definito “Checklist Era“. E credo che oggi rappresenti il nodo più urgente da sciogliere.
La grande illusione della “conquista”
Abbiamo trasformato il viaggio in una caccia al trofeo. La stessa foto, nello stesso angolo, allo stesso orario. Cambiano le persone, ma il copione è identico. Gli algoritmi ci hanno convinti che ci sia un modo “giusto” di vedere un luogo, e che coincida con ciò che è già stato visto milioni di volte.
Ma quando tutto diventa ripetizione, cosa resta dell’incontro? Quando il paesaggio serve solo a rafforzare un’immagine da postare, che valore conserva il luogo reale? Quando l’unico obiettivo è spuntare, cosa accade al vivere?
Non è solo una questione di stile. È un intero modello che non regge più.
Durante un TED Talk a Padova ho provato a raccontare da dove nasce questa fase. L’ho inserita all’interno di un percorso di ricerca che ho chiamato “la teoria delle 5 ere del viaggio“. Una linea evolutiva simbolica che parte dal bisogno ancestrale di muoversi, prima per sopravvivere, dopo per conquistare, poi per commerciare, fino ad arrivare al paradosso contemporaneo.
A una fase apparentemente evoluta, ma emotivamente impoverita. Viaggiamo più di qualsiasi generazione prima di noi, eppure siamo diventati impermeabili. È come se il viaggio avesse perso la sua funzione trasformativa e fosse diventato solo uno stimolo in più, da consumare e archiviare.
Un concetto, quello della Checklist Era, che ha trovato risonanza in tutto il mondo, ripreso da testate come Skift, Il Sole 24 Ore, Il Mattino e diversi media internazionali. Non per moda, ma perché ci costringe a fare i conti con ciò che il turismo è diventato.
I sintomi del collasso
Basta guardare i segnali. Residenti esasperati, che non riconoscono più i luoghi in cui vivono. Centri storici svuotati di senso e pieni solo di souvenir. Prezzi fuori controllo, esperienze clonate, luoghi meravigliosi ridotti a sfondi replicabili.
È come se il turismo avesse tradito la sua promessa originaria: generare incontro, stupore, trasformazione. E avesse scelto la scorciatoia del consumo rapido.
Ma ogni sistema che ignora i propri limiti, prima o poi si rompe.
E qui entra in gioco una teoria che pochi conoscono, ma che dovrebbe stare alla base di ogni piano strategico sul futuro del turismo: la teoria del Panarchy, elaborata da due scienziati americani (Gunderson e Holling) all’inizio degli anni 2000. Uno strumento potente per leggere l’evoluzione dei sistemi complessi, sociali, naturali, economici e per capire in che fase ci troviamo.
Conservazione, collasso, rilascio, rigenerazione
La teoria della Panarchia è un modo per capire come funzionano i grandi cambiamenti, sia nella natura che nella società.
L’idea è questa: i sistemi complessi (come una foresta, una città, o anche il turismo) non crescono in linea retta, ma seguono un ciclo che si ripete. Un po’ come le stagioni.
Questo ciclo ha 4 fasi che si intersecano e influenzano a vicenda:
- Conservazione: quando tutto sembra funzionare, ma in realtà si irrigidisce. (È il momento in cui le città diventano brand, e i centri storici palcoscenici. Tutto funziona finché non si rompe.)
- Collasso: quando il sistema cede sotto il peso delle proprie rigidità. (Quando Barcellona o Venezia devono mettere varchi o ticket per frenare l’ingresso.)
- Rilascio: quando si spezza il vecchio equilibrio. (Quando le comunità iniziano a dire basta. Quando si chiude un centro storico alle auto, o si limita l’accesso ai grandi gruppi.)
- Rigenerazione: quando si apre lo spazio per innovare davvero. (Come a Lubiana, dove il centro è tornato ai cittadini. O nei borghi italiani che riscoprono l’artigianato e il tempo lento.)
Ora, se applichiamo questa chiave di lettura al turismo, il parallelo è limpido.
La Checklist Era è chiaramente la fase di conservazione. Tutto sembra funzionare: grandi numeri, mete di tendenza, file infinite davanti alle stesse attrazioni. Ma è una bolla. E come tutte le bolle, prima o poi esplode.
L’overtourism è il sintomo del collasso. Quando il luogo non regge più, la città si ribella. I residenti se ne vanno, le esperienze si deteriorano, l’equazione della sostenibilità fallisce. E anche i visitatori più attenti iniziano a chiedersi: “ne valeva davvero la pena?”.
La sfida è arrivare alla fase di rigenerazione. Cambiare narrazione, ridisegnare i modelli, scegliere cosa mantenere e cosa lasciare andare.
Il tempo della rigenerazione
È qui che si gioca il futuro. La rigenerazione non è un vezzo da intellettuali o un esercizio creativo. È una scelta obbligata, è l’unico modo per uscire dalla Checklist Era e costruire un turismo che abbia ancora senso.
Un turismo che non consuma, ma cura. Che non distrugge i contesti, ma li potenzia. Che mette al centro le persone… tutte. Chi viaggia, chi accoglie, ma sopratutto chi resta.
Rigenerare significa cambiare narrazione, ridisegnare i modelli, avere il coraggio di scegliere cosa mantenere e cosa lasciare andare. Significa smettere di misurare il successo con i numeri, e iniziare a farlo con la qualità dell’impatto: sociale, economico, ambientale, culturale.
Non è (solo) marketing
Per questo, quando in Visit Italy diciamo che serve un nuovo modo di pensare il turismo, non stiamo parlando solo di marketing. Parliamo di cicli vitali, di capacità di lettura, di visione, di futuro.
Serve lucidità per capire dove siamo. Ma soprattutto serve coraggio per scegliere dove vogliamo andare.
Perché uscire dalla Checklist Era è diventata una necessità.
È ciò che stiamo facendo ogni giorno, sul campo, insieme a territori che hanno deciso di cambiare rotta prima che sia troppo tardi. Lo stiamo facendo ad Arezzo, che ha riscritto la sua narrazione mettendo al centro il legame tra cultura e qualità della vita. A Genova, che sta riscoprendo la sua anima verticale e poetica, lontano dai cliché. Nel Nord Sardegna, dove grazie a progetti come Salude & Trigu abbiamo dimostrato che si può attrarre turismo internazionale senza svendere identità. E in tantissimi altri comuni, piccoli e grandi, dall’entroterra alle coste, che hanno scelto di non restare fermi a guardare.
Con loro stiamo costruendo modelli replicabili, ma mai standardizzati. Percorsi di rigenerazione che partono sempre da una domanda semplice e potente: “Che tipo di valore vogliamo lasciare, una volta che il turista se ne sarà andato?”
Perché il turismo che funziona non è quello che attira di più.
È quello che trasforma. Chi arriva. Chi resta. E chi verrà dopo.
Imprenditore e tra i principali esperti di marketing territoriale in Italia, Ruben Santopietro è CEO di Visit Italy, la piattaforma culturale indipendente che racconta l’Italia lontano dai riflettori, attraverso progetti e contenuti che trasformano la percezione dei territori. Nel tempo libero coltiva la passione per l’arte, le due ruote e l’esplorazione dei luoghi più affascinanti del mondo.