Proponiamo il testo dell’incontro “Vite donate. L’eredità viva dei martiri d’Algeria” di sabato 23 agosto 2025, ore 12:00 in Auditorium isybank D3
Hanno partecipato:
Bernhard Scholz, presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS (saluto introduttivo); Thomas Georgeon, abate monastero di La Trappe, postulatore della causa di beatificazione dei martiri d’Algeria; Nadjia Kebour, docente Pontificio Istituto Studi Arabi e d’islamistica, PISAI; Lourdes Miguélez Matilla, suora agostiniana missionaria; S.E. Card. Jean-Paul Vesco, arcivescovo metropolita di Algeri; Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale Libreria Editrice Vaticana.
BERNHARD SCHOLZ
Buongiorno, benvenuti a questo incontro sull'eredità dei martiri d'Algeria. Saluto i nostri ospiti, poi faremo un applauso a tutti insieme. Sua eminenza il Cardinal Jean-Paul Vesco, Suora Lourdes Migueles Matilla, Padre Thomas Georgeon e la professoressa Nagià Kebour. Benvenuti. Siamo molto consapevoli che avete fatto anche dei viaggi lunghi, faticosi, quindi grazie anche per questo sacrificio.
Vi siamo profondamente grati per la vostra disponibilità di farci incontrare i martiri d'Algeria, per farci scoprire e riscoprire il significato degli accadimenti drammatici tra il 1994 e il 1996 che vengono illustrati in un modo straordinario nella mostra con il titolo significativo "Chiamati due volte". Abbiamo bisogno di approfondire la consapevolezza che una vita donata può diventare una vita feconda, di grande fecondità per le sorelle e i fratelli vicini o lontani, che una vita donata, per dirla con il titolo di questo Meeting, può diventare un mattone nuovo nella costruzione di un mondo più umano, più fraterno. Il Santo Padre, Papa Leone XIV, l'ha detto nel suo messaggio al Meeting di quest'anno: "Nei martiri d'Algeria risplende la vocazione della Chiesa ad abitare il deserto in profonda comunione con l'intera umanità, superando i muri di diffidenza che contrappongono le religioni e le culture, nell'imitazione integrale del movimento di Incarnazione e di donazione del Figlio di Dio. Ed è questa la via di presenza e di semplicità, di conoscenza e di dialogo della vita, la vera strada della missione, non un'auto esibizione nella contrapposizione delle identità, ma il dono di sé fino al martirio di chi adora giorno e notte nella gioia e fra le tribolazioni, Gesù solo come Signore".
Il nostro Meeting si chiama Meeting per l'amicizia fra i popoli, potremmo anche dire per l'amicizia fra le culture, fra le religioni. I martiri d'Algeria ci testimoniano in un modo straordinario proprio questa amicizia, anzi, la incarnano in un modo compiuto fino a dare la vita per gli amici che aderivano a un'altra fede religiosa. E ci ricordano che il dialogo interreligioso è sempre e prima di tutto un dialogo fra persone capaci di lasciarsi arricchire e trasformare dall'incontro con l'altro. Colgo questa occasione per ringraziare gli ideatori e curatori di questa bellissima mostra, in particolare la Fondazione Oasis con Alessandro Banfi e la Libreria Editrice Vaticana con Lorenzo Fazzini che saluto e al quale passo la parola. Grazie.
LORENZO FAZZINI
Grazie presidente Scholz, grazie di queste parole, di questo saluto. Io spendo due parole in più, se mi permettete, per presentarvi i nostri ospiti, perfetta parità di genere, come vedete, ma soprattutto ringraziandoli per questo incontro che è stato molto atteso e potremmo dire anche provvidenziale. Sua eminenza mi permetterà di rompere il protocollo dando per primo il saluto a Suor Lourdes Migueles Matilla, missionaria agostiniana in Algeria negli anni del decennio nero. Suor Lourdes è qui con noi e ci racconterà cosa ha voluto dire essere in Algeria in quegli anni e anche scappare a un attentato nel quale sono cadute due sue consorelle, Suor Esther e Suor Caridad. Jean-Paul Vesco, domenicano, come ben dice l'abito, già vescovo di Orano, la sede dove è stato vescovo Pierre Claverie, quindi un successore di un martire, e da poco tempo arcivescovo e cardinale di Algeri. Benvenuto. Nagià Kebour, algerina, professoressa al Pisai, Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’islamica, una studiosa musulmana con un dottorato su Sant'Agostino, quindi siamo sempre da quelle parti. E qui a fianco a me, Thomas Georgeon, un volto già noto al Meeting, è stato presente nel 2019, monaco trappista, abate del monastero di La Trappe e postulatore della causa di beatificazione dei 19 martiri. Benvenuto.
Permettetemi anche un ringraziamento alle autorità civili e diplomatiche presenti e un ringraziamento al comitato scientifico della mostra "Chiamati due volte", in particolare al Cardinale Angelo Scola, fondatore di Oasis, che ha voluto molto e con grande passione la realizzazione di questa mostra e quindi, anche se da distante, mi piace e ci piace con i curatori salutarlo. Vite donate è stato intitolato questo incontro, ma quali sono queste vite? Sono quelle dei tanti missionari e missionarie che oggi nel mondo, non solo in Algeria, scelgono la cosa più folle del mondo, come ha scritto Javier Cercas in un libro accompagnando Papa Francesco in Mongolia: “qual è la cosa più folle del mondo?” Andare in un posto lontano, diverso dalla propria patria, diverso dalla propria lingua, dalla propria cultura, per testimoniare una cosa: che la vita è eterna. Per testimoniare che c'è stato un tizio, qualche anno fa, che la morte l'ha sconfitta per sempre. E per questo motivo, i 19 e non solo, d'Algeria, sono stati disposti a dare letteralmente la vita. Perché? Perché non volevano abbandonare gli amici. Gli amici, le amiche, gli anziani con cui prendevano il the, i bambini disabili che accudivano nei loro centri, i giovani a cui insegnavano l'arabo, loro francesi, le donne a cui trasmettevano l'arte del cucire.
I missionari martiri non sono stati dei sindacalisti dei cattolici, ma sono stati gli amici di tutti. E in Algeria, come in altri posti, hanno dato letteralmente la vita per gli amici, seguendo quel tale che disse che non esiste amore più grande che dare la vita per i propri amici. E tra l'altro in un Meeting che, appunto, ha la parola amicizia nel suo titolo, ascolteremo una grande storia di amicizia. E allora io vorrei partire da Suor Lourdes, che è quella che più ha vissuto, tra forse le persone qui presenti, questa amicizia. L'ha vissuta diversi anni in Algeria, proprio nel periodo in cui i nostri 19 hanno testimoniato questa appartenenza a Cristo restando lì, vicino a quel popolo martoriato. Siamo pronti ad ascoltarla davvero con grande attenzione. Grazie.
SUORA LOURDES MIGUELES MATILLA
Il 27 settembre del 1972 fui inviata in Algeria, dove la nostra congregazione delle missionarie agostiniane è presente dal 1933. Arrivai ad Algeri a 22 anni, senza conoscere quasi nulla di quel paese. Non conoscevo le sue lingue e le sue culture e quasi senza sapere nemmeno dove mi trovassi. Fu un grande shock e non riuscivo a immaginare che cosa avrei potuto fare lì. L'accoglienza che ricevetti dalle sorelle della comunità e anche il loro stile di vita arrivarono proprio al mio cuore. Quanta dedizione e quanta gratuità nei loro umili servizi. Io le osservavo in silenzio e mi sentivo edificata. La vicinanza con il Cardinale Duval, un uomo di fede, giusto e dedicato a costruire la pace e la fraternità, fu un grande aiuto per me nel momento di scoprire il mio essere in quel paese e capire quale fosse la mia prima missione. Ricordo ancora le sue parole: "Siamo qui per convivere con il popolo, con queste persone, nel rispetto fraterno e sapendo che loro, come noi, siamo salvati in Cristo, anche se loro non lo sappiano". L'amore di Dio è offerto a tutta l'umanità.
Dal mio arrivo ad Algeri, ho dovuto spogliarmi di molte cose per aprire il mio cuore e il mio spirito a realtà nuove e molto diverse. La Chiesa locale mi ha attratto per il suo impegno nei confronti del popolo algerino e per la sua testimonianza luminosa di unità, comunione e dono. E questo ha facilitato la mia integrazione. Poco a poco ho cominciato a scoprire il senso della mia vocazione e della mia vocazione nella Chiesa, in questo paese, tra fratelli e sorelle musulmani. Cominciai a studiare infermieristica in un istituto statale nel quartiere di Hussein Dey. Ero l'unica persona straniera e cristiana fra tutti gli studenti. Ho versato molte lacrime, però con grande determinazione, perseveranza e con l'aiuto degli angeli custodi che Dio ci mette sulla nostra strada, sono riuscita a completare con successo i miei studi. Per quasi 30 anni ho lavorato come infermiera negli ospedali statali ed ero sempre l'unica persona cristiana e religiosa. I grandi sacrifici del mio inizio in questo paese mi hanno portato a immergermi totalmente nel popolo. Ho cominciato a scoprire i suoi valori, la sua cultura e le sue credenze. Mi sono resa conto del fatto che la mia missione consisteva nel vivere e condividere la fede, la vita quotidiana con responsabilità e autenticità.
Sono stati tanti anni che ho vissuto con il popolo algerino e sono stata testimone di tanti cambiamenti nella società e anche nella Chiesa, sempre più piccola e spogliata di molti dei suoi beni materiali. Durante questo tempo, più di 700 chiese o cappelle furono trasformate in moschee. Nel 1976, lo Stato algerino nazionalizzò le strutture della Chiesa e recuperò più di 100 scuole e di centri di formazione, così come decine di asili, ospedali e di dispensari. Di fronte a questa situazione, molte sorelle e molti sacerdoti abbandonarono il paese, dato che erano rimasti senza lavoro. Coloro che rimasero dovevano essere coraggiosi, ingegnosi e creativi per cercare nuovi modi di rimanere nel paese e di mantenere la presenza cristiana tra la gente. E fu allora che si aprirono delle biblioteche e dei centri di sostegno scolastico per aiutare bambini e giovani nei loro studi. La mia vita ormai si era radicata in questo popolo. Avevo iniziato a conoscere e ad amare la gente e sentivo il loro affetto e la loro fiducia. Ormai mi trattavano come una di loro. E poi ho scoperto l'importanza di stabilire delle relazioni basate sul rispetto e sull'accettazione delle differenze e di vivere con la condivisione della fede. Di fatto, sul lavoro, parliamo di Dio molto di più con i musulmani, con gli algerini, rispetto a quando ci ritroviamo tra cristiani.
Ho appreso che non ero andata lì ad imporre qualcosa, anzi, ero lì per condividere, per lavorare insieme e per valorizzarlo. Poco a poco, il mio cuore e il mio essere si aprirono e le relazioni umane cominciarono ad approfondirsi, fino al punto da crearmi delle amicizie solide, fedeli e durature che ho tuttora. Grazie a queste amicizie è cresciuta la mia fiducia in Cristo e il mio desiderio di seguirlo ancora più da vicino. È aumentata anche la mia fiducia nei confronti della Chiesa e del popolo algerino. Ed ero disposta a dare la mia vita se fosse stato necessario. Dopo essere cresciuta nel corso degli anni in questo contesto di solidarietà, di fiducia e di amicizia, ecco che arrivarono momenti bui, di paura, di insicurezza, di mancanza di speranza e di sfiducia. Ed ecco arrivare il decennio nero degli anni '90 in Algeria. Noi vivevamo a Bab El Oued, un quartiere popolare con una forte presenza di integralisti, con le mie sorelle. Il popolo era molto diviso ed impaurito e non c'era nessun progetto di futuro. Io lavoravo nel nuovo ospedale di Ben Aknoun, un quartiere lontano rispetto a dove vivevamo. E grazie a Dio, non ho mai sentito paura e ho continuato a mantenere lo stesso entusiasmo, anche con maggiore entusiasmo, ho continuato a condividere la vita dei colleghi, colleghe e anche delle persone malate nell'ospedale. Volevo che sentissero che io non li avrei abbandonati e che desideravo accompagnarli, a sostenerli e ad animarli. Era un modo di condividere le loro insicurezze, di perdita di speranza e le paure. Mi trovavo al loro fianco quando la notte si faceva più oscura e quando il futuro sembrava incerto e quando tutto sembrava vacillare. Abbiamo condiviso tantissimi orrori e tantissima sofferenza. Dopo aver ricevuto diverse minacce e aver assistito a molti omicidi, i responsabili della Chiesa e delle nostre congregazioni ci invitavano ad essere prudenti e a uscire quando fosse davvero solo necessario. E io avevo molta paura che ci potesse succedere qualcosa. Nel 1993 c'erano 222 religiose nella diocesi di Algeri. Tre anni dopo ne rimanevano solamente 70. Eravamo solo 70 sorelle. La nostra Chiesa si stava svuotando e si stava creando un deserto della presenza cristiana. Mai come in quel momento il futuro della Chiesa in Algeria era stato così minacciato. In questo periodo uscivamo proprio allo stretto necessario, solo per andare a lavorare all'ospedale. E prima di uscire, lasciavamo i nostri documenti personali sopra il letto e lo dicevamo alle sorelle che rimanevano in casa per sapere dove li avrebbero potuti trovare nel caso in cui noi non fossimo tornate.
Fu un periodo di profonda esperienza spirituale e di trasformazione, sia a livello personale, sia a livello comunitario. E fu un tempo di grazia e di benedizione. Siamo potute crescere nella fedeltà a Cristo. Passavamo molto tempo in adorazione, contemplando il Cristo crocifisso e da lì emergeva la chiamata e la forza per condividere la croce. E io, come mai prima nella mia vita, ho sperimentato qualcosa: una forza interiore e un grande dono, che è la comunione dei santi. Non eravamo soli, facevamo parte del corpo di Cristo. La lettura del Vangelo di ogni giorno illuminava il mio cammino. La mia preghiera era di abbandono e di fiducia. Le nostre eucaristie prendevano vita. Ogni preghiera assumeva più significato e diventava più esigente. Dovevamo amare e perdonare con parole e opere. E io, come religiosa agostiniana, faccio riferimento ad alcune parole di Sant'Agostino che mi hanno aiutato a prendere la decisione di rimanere fedele a Cristo e al popolo algerino. Sono parte della lettera 2,28 e dice: "Chi resta fedele in mezzo al suo popolo, esponendosi alla persecuzione o addirittura alla morte, ha compiuto un'opera maggiore del martirio. Di conseguenza, non abbandonate mai il vostro gregge, né il vostro popolo". E il Monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano, che fu assassinato anche lui, diceva: "È più importante per noi oggi dare la nostra vita per salvare il futuro del nostro popolo che ritirarci per salvare noi stessi".
E la situazione peggiorava. E l'1 dicembre del 1993, il gruppo islamico armato, il GIA, dichiarò che avrebbe ucciso tutti gli stranieri che erano rimasti nel paese, inclusi i membri della Chiesa. Tuttavia, noi ci sentivamo come parte della comunità e pensavamo che non saremmo state toccate da questo problema. E quindi l'8 maggio del 1994, i nostri fratelli Henri Vergès e Paul Hélène furono assassinati nella Casbah. I funerali nella Basilica della Nostra Signora d'Africa furono come una Pentecoste, con canti di giubilo, un'esplosione di pace, di serenità e di forza. Sentivamo il desiderio ancora più forte di continuare senza la paura, di vivere la nostra fede con forza e con passione, fino al punto da dare la vita per amore. Allo stesso tempo, questo evento così grave ci ha anche reso consapevoli, consapevoli del fatto che le nostre vite erano in pericolo, poiché i fondamentalisti non avevano alcun riguardo per i religiosi. I vescovi riuniti ci invitarono a lasciare il paese e a prolungare per quanto possibile le nostre vacanze. Quindi siamo partite, abbiamo riposato, abbiamo condiviso la nostra situazione con le nostre famiglie e con le suore della congregazione. E dopo che sono tornata dalle vacanze, io ho continuato a lavorare in ospedale. E ogni giorno, quando aspettavo i mezzi di trasporto, dopo aver salutato le altre sorelle, dicevo sempre che Dio si prenda cura di noi e ci protegga e speriamo di vederci oggi pomeriggio. Ebbene sì, sapevo che un proiettile poteva arrivare da qualsiasi parte. Ero consapevole del fatto che forse quel giorno non sarei tornata a casa. Le giornate erano una preghiera continua, una preghiera di abbandono e di supplica. Io sentivo forte la presenza amorevole di Dio Padre in me. Al lavoro, tutti i colleghi ci proteggevano. Dopo le vacanze, la Madre Generale e la Madre Provinciale, con l'arcivescovo Monsignor Tessier, decisero di riunire tutte noi, sorelle di Algeri, nella casa diocesana per fare insieme un discernimento e scoprire la volontà di Dio. E quindi i giorni 6 e 7 ottobre del 1994 furono due giorni intensi di preghiera personale e comunitaria. Abbiamo potuto riflettere sui motivi che potevano farci continuare la missione o abbandonarla temporaneamente. Sono stati momenti di ascolto molto intensi dello Spirito e di desiderio di seguire Gesù nella sua donazione totale per amore verso di noi. Tutte noi, consapevoli del pericolo, i rischi e le minacce, con molta pace, con molta serenità, ci siamo espresse. E abbiamo spiegato i motivi per cui volevamo rimanere in Algeria. E quello che io ho detto in quel momento è stato questo: "Voglio rimanere fedele a Cristo. Ho scoperto il valore della mia vocazione e gli algerini mi hanno aiutato a viverla con maggiore impegno e pienezza. Signore, mi hai chiamato e io ti ho detto: Eccomi qua. Voglio seguirti in questo momento di prova. Voglio essere il tuo testimone. Sono disposta a seguirti, Signore. Mi sento felice e mi sento realizzata e voglio essere fedele a questo popolo algerino che mi ha accolto sempre e voglio condividere e valorizzare con loro il mio lavoro e la mia vita. Questo popolo mi ha formato e in lui ho vissuto momenti forti e cambiamenti significativi nella mia vita. Sono cresciuta al suo fianco nella fede, nella disponibilità e nella gratuità. Sono missionaria e agostiniana nella terra del nostro padre Sant'Agostino e voglio rimanergli fedele adesso e sempre. Voglio vivere come me lo chiede Cristo: amare i miei nemici e fare del bene a coloro che ci maledicono".
Quindici giorni dopo, il 23 ottobre 1994, dopo aver lavorato tutto il giorno in ospedale, ritornai tardi a casa. Abbiamo bevuto qualcosa, abbiamo riso, abbiamo scherzato e ci siamo dirette alla cappella che si trovava a due isolati di distanza. E prima di separarci, dissi a voce alta: "Andiamo due a due. Se ne uccidono due, perlomeno non ci uccidono tutte e quattro". Era il giorno in cui la Chiesa prega per i missionari. E in cammino verso la celebrazione dell'Eucaristia, le prime due sorelle, Caridad e Esther, si trovavano davanti alla porta della casa dove si trovava la cappella. Erano lì che aspettavano che aprissero e fu in quel momento quando due pallottole attraversarono le loro teste. E al vedere le mie sorelle quasi senza vita, ho potuto dire nel profondo del mio cuore solo questa cosa: "Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno". Fu doloroso, sì, però eravamo pronte per questo. Credo che Dio abbia accolto la vita delle mie sorelle e abbia preservato la mia per essere testimone. Sono rimasta sola nella comunità. Volevo continuare a offrire la mia vita alla Chiesa, al popolo. Tuttavia, ho dovuto mostrare grande obbedienza ai superiori e lasciare il paese. E tornai a Madrid con il cuore a pezzi, sentendomi come se avessi tradito il Signore e anche che avessi tradito le mie convinzioni più profonde. E piansi molto. Non avre