Intervista a Nelli Feroci: «L’Italia fermi la collaborazione militare con Israele. Non è ammissibile l’occupazione di Gaza e Cisgiordania. L’Onu vive un momento di paralisi» - Partito Socialista Italiano

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di Andrea Follini

Una lettera che porta la firma di quaranta diplomatici in quiescenza, esperti mediatori in ogni situazione di tensione e perfetti conoscitori della geopolitica mondiale, ha alzato il livello del dibattito politico sulla situazione mediorientale, in particolare quella che si sta vivendo a Gaza. Nel momento in cui cominciano a moltiplicarsi gli appelli dei leader occidentali al governo israeliano a far cessare il conflitto e la situazione disumana che esso porta con sé, la voce autorevole della nostra diplomazia chiede al governo Meloni di non rimanere indifferente. E lo fa con la precisione che la contraddistingue.

Signor Ambasciatore, quello che avete lanciato qualche giorno fa è un appello che ha fatto parecchio rumore. Cosa chiedete nella vostra lettera al Governo?

«La lettera, che effettivamente ha avuto un discreto rilievo mediatico, parte dalla constatazione della totale intollerabilità della situazione che si è venuta a creare a Gaza negli ultimi settimane e mesi. È una situazione che ci lascia tutti sconcertati, che consideriamo una vera tragedia umanitaria ma anche politica, un dramma etico politico e umanitario al tempo. Parte anche dalla constatazione che negli ultimi giorni alcuni governi avevano cominciato a denunciare la situazione a Gaza come intollerabile ed erano partite le prime dichiarazioni di presa di distanza dal modus operandi del governo israeliano. Però quello che mancava e che noi sottolineiamo in questa lettera è qualche misura concreta, che possa servire o che potesse servire per mettere pressione sul governo israeliano e da qui le tre o quattro richieste che sono la parte più sostanziale, la parte più importante tra le altre».

Ce le illustra?

«La prima è la richiesta di sospensione di qualsiasi collaborazione dell’Italia con le forze armate israeliane, di qualsiasi collaborazione con Israele nel settore della difesa, nel settore militare, compresa quindi la sospensione di forniture se ancora ce ne fossero. La seconda era la richiesta di avviare un’iniziativa in sede europea per delle sanzioni mirate su quei membri del governo israeliano che si erano pronunciati in maniera più aperta e esplicita a favore della annessione di Gaza e della Cisgiordania. E la terza, che era specificamente rivolta ad assumere un’iniziativa in sede europea per mettere in cantiere una sospensione, magari temporanea, dell’accordo di associazione tra Unione Europea ed Israele. Un segnale che doveva avere ovviamente una valenza politica ma che poteva avere anche suo impatto per le conseguenze della sospensione di accordi commerciali, di accordi di cooperazione economica, di accordi che prevedono l’accesso di Israele a programmi europei. E poi c’è la quarta questione.

Quale?

«Quella che ha sollevato più riserve, anche più polemiche, che è quella del riconoscimento dello Stato di Palestina. Noi ovviamente siamo perfettamente consapevoli che non ci sono le condizioni per l’operatività di uno Stato di Palestina, però abbiamo ritenuto che una richiesta di questo tipo fosse una manifestazione di solidarietà al popolo palestinese. È uno strumento di pressione da esercitare nei confronti del governo di Israele per scoraggiare eventuali, ed abbastanza concrete, tentazioni annessionistiche di Israele su Gaza e sulla Cisgiordania».

Su Gaza è di pochi giorni fa l’indicazione di Netanyahu di voler procedere ad una annessione completa del territorio della Striscia. Vedremo se sarà solo una minaccia, l’ennesima, oppure una vera volontà.

«Questo ultimo sviluppo è molto grave; non è una cosa inattesa, perché sono giorni e giorni che alcuni membri del governo israeliano dichiarano che Gaza deve essere rioccupata militarmente, che va ristabilita la sovranità di Israele su Gaza. Alcuni membri del governo non sia accontenterebbero nemmeno della sola Gaza ma vorrebbero estendere questo intento anche verso la Cisgiordania. Da qui l’idea appunto di mettere un blocco, un paletto, per potere da un lato evitare l’ipotesi che un’annessione di questo tipo possa essere riconosciuta da altri Paesi terzi e comunque lasciare aperta la porta per un’eventuale futura soluzione quando mai ci saranno le condizioni per una formula del tipo “due popoli – due Stati”; uno Stato palestinese che viva in condizione di coesistenza pacifica e di riconoscimento reciproco con Israele».

Lei ritiene, Ambasciatore, che la logica del governo israeliano ed in particolare dell’estrema destra governativa, di andare a occupare quei territori perché potenzialmente forieri di terrorismo, possa nascondere in realtà la volontà di allargare il conflitto o meglio, di tornare ad allargare il conflitto, anche verso il Libano, piuttosto che la Siria?

«Oggi Israele è impegnato su più fronti; Gaza ovviamente è quello più importante e anche quello dove si registrano le perdite maggiori di vite umane e maggiore deplorazione sul fronte internazionale. Di Cisgiordania si parla meno, ma sono quotidiani gli attacchi dei coloni ai palestinesi che vivono lì e alle loro aziende, alle loro imprese, con tentativi di recuperare terreno e territorio che sarebbe di competenza delle popolazioni palestinesi. Questi sono i due fronti principali. Però non sono gli unici perché sappiamo perfettamente, lo vediamo di tanto in tanto, che Israele considera fronti aperti da un lato anche il Libano, perlomeno il Libano meridionale dove interviene periodicamente, ciclicamente, per colpire le postazioni di Hezbollah e anche ultimamente abbiamo visto delle operazioni militari sulla Siria, a difesa della minoranza drusa che vive non solo in Siria ma anche in Israele e che è molto vicina per mille motivi al popolo e al governo israeliano. Poi c’è il fronte per il momento silente e sopito dell’Iran, ma anche quello è un fronte che comunque resta aperto perché è vero che l’Iran ha subito uno smacco ed una sconfitta clamorosa con l’attacco congiunto israeliano ed americano, però nell’ottica israeliana resta una minaccia permanente».

Rispetto al vostro appello, ci sono state delle interlocuzioni con il governo italiano? Qualcuno si è fatto sentire da Palazzo Chigi o dalla Farnesina, con voi?

«Non che io sappia, ma può darsi che qualcuno abbia preso contatto, soprattutto con chi è stato l’ispiratore di questa iniziativa, l’ambasciatore Pasquale Ferrara, però ne dubito francamente. Io ho visto delle reazioni, soprattutto da parte di esponenti dell’opposizione, in particolare di Schlein e di Conte, che hanno manifestato apprezzamento per il coraggio di questa iniziativa e anche per i contenuti della lettera. Per quanto riguarda il governo, la maggioranza, ho visto ripetere le stesse considerazioni, l’ha fatto il ministro Tajani, sicuramente in maniera molto esplicita e articolata, che consistono nel dire che sì, un giorno arriverà questo riconoscimento dello Stato di Palestina, ma sarà a completamento di un processo e come parte di una soluzione globale del problema palestinese e implicitamente lasciando intendere che chiedere ora il riconoscimento dello Stato di Palestina è un errore, perché significa anticipare un elemento di un accordo complessivo che dovrà arrivare un giorno, non sappiamo ancora bene quando; quindi, di fatto, un’espressione di riserva ed opposizione a questa richiesta».

Lei è stato per molti anni impegnato presso la rappresentanza permanente italiana alle Nazioni Unite. Nell’opinione pubblica in molti si chiedono cosa stia facendo l’Onu per risolvere questi conflitti. È solo una questione di potere del diritto di veto che ferma l’agire dell’Onu o c’è di più?

«C’è sicuramente una paralisi delle Nazioni Unite che noi abbiamo potuto registrare non solo su questo conflitto ma anche sul conflitto in Ucraina o su altre situazioni di conflitto, che riflette una crisi generalizzata dell’Organizzazione. Sulla questione israelo-palestinese sappiamo perfettamente quali sono gli schieramenti e sappiamo anche perfettamente che la posizione dell’amministrazione americana attuale, che è completamente schiacciata su quella del governo israeliano, renderebbe inimmaginabile qualsiasi iniziativa che non sia allineata con quella del governo israeliano. È molto difficile ipotizzare un ruolo delle Nazioni Unite per sbloccare la situazione o per avviare un processo che ha portato all’accordo parziale, magari sul cessate il fuoco, sullo scambio dei prigionieri, sulla liberazione degli ostaggi. C’è stata un’iniziativa che è si è tenuta a New York a fine luglio, alle Nazioni Unite ma non delle Nazioni Unite, promossa dalla Francia e dall’Arabia Saudita, che aveva come obiettivo quello di rilanciare l’ipotesi dei “due popoli-due Stati”.

Lei che idea si è fatto?

In questa dichiarazione di New York si condanna l’attacco di Hamas, ovviamente. Ed è la prima volta che lo fanno alcuni Paesi arabi. Si chiede un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza; si chiede l’istituzione della missione delle Nazioni Unite che ne monitori la tenuta; si chiede la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e si fissano alcune tappe per arrivare all’obiettivo finale, che sarebbe quello di un assetto basato sul riconoscimento di “due popoli-due Stati”. Però, ripeto, è un’iniziativa che è stata importante perché è stata sottoscritta da un numero importante di Paesi, compresi praticamente tutti i membri della Lega Araba, ma non è un’iniziativa delle Nazioni Unite. Ci sono anche i Paesi dell’Unione Europea che hanno sottoscritto questa iniziativa. Non è un’iniziativa delle Nazioni Unite, è stata utilizzata semplicemente la sede delle Nazioni per dare maggiore risonanza a questa iniziativa che nasce soprattutto come franco-saudita».

Ma si può dire, alla luce di tutto questo, che l’Onu in qualche modo stia o abbia già esaurito il suo ruolo originario o secondo Lei invece, al di là di questa parentesi difficile, c’è comunque spazio per un lavoro delle Nazioni Unite a gestione della pace mondiale?

«Le Nazioni Unite svolgono un ruolo importantissimo, soprattutto per quello che le agenzie specializzate delle Nazioni Unite fanno quotidianamente. È un lavoro magari non troppo evidente, di cui i media non parlano abbastanza, ma è un lavoro molto importante nei più svariati settori, anche se talora è contestato da alcune grandi potenze; pensi alla contestazione da parte di americani dell’organizzazione mondiale della sanità o dell’Unesco e sono le Nazioni Unite in quanto istituzione politica preposta all’obiettivo del mantenimento della pace, che in questo momento sono in crisi grave. In crisi grave perché l’organo che dovrebbe garantire questa funzione di mantenimento della pace e di composizione dei conflitti, è paralizzato dall’esistenza del potere di veto che a sua volta è la fotografia di una situazione di rapporti di forza e di potenza che era quella emersa alla fine della seconda guerra mondiale. Quindi in questa fase è difficile riuscire, anche con la migliore e più positiva delle fantasie, a immaginare un ruolo costruttivo nella soluzione delle crisi internazionali. Però l’Onu può intervenire, non dimentichiamo, qualora dovesse emerge un accordo, e questa è una delle possibilità, magari con l’invio di una missione di caschi blu, forze di interposizione, forze di peacekeeping. Questa è una funzione che l’Onu può riassumere quando ci saranno le condizioni per un accordo sul terreno. Per esempio se si dovesse arrivare ad un cessate il fuoco a Gaza. Ma è una ipotesi più che altro di scuola».

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