Ogni società ha un proprio rito di passaggio alla vita adulta, una sfida che i giovani membri, aspirando ad un determinato ruolo o ad una semplice affermazione sociale, devono sostenere per percepirsi ed essere percepiti come parte integrante di quel gruppo. Le prove da affrontare sono variate per circostanze temporali e spaziali, ma condividono tutte una caratteristica fondamentale: la possibilità per i giovani di fare i conti con la responsabilità di fare delle scelte libere e consapevoli, analizzando i fattori circostanti e avvalendosi solo del proprio spirito critico e delle proprie capacità per superare la difficoltà, senza alcun tipo di aiuto o influenza esterna.
Oggi, l’idea di un effettivo rito di passaggio si è ormai persa in quasi tutte le parti del mondo, frammentandosi piuttosto in vari punti di snodo fondamentali ma al tempo stesso non totalmente decisivi nell’includere (o escludere) un individuo da un determinato contesto sociale. Uno di questi snodi cruciali, in Italia, è sicuramente l’esame da affrontare al termine dei propri studi secondari, chiamato “Esame di Stato” fino a qualche giorno fa e ora ribattezzato “Esame di maturità” da un decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 settembre 2025.
Oltre alla modifica formale della sua denominazione, che però si riempie anch’essa di un profondo significato sostanziale da analizzare più avanti, l’intervento maggiormente incisivo a nostro avviso riguarda in particolare la prova orale. Il decreto, infatti, modificando l’art. 17 del d.lgs. 62/2017, ritiene che “l’esame di maturità è validamente sostenuto se il candidato ha regolarmente svolto” le due prove scritte nazionali e il colloquio, assegnando quindi alla commissione esaminatrice la facoltà di bocciare il candidato in caso di un silenzio totale ed immotivato durante la prova orale, e aprendo alla possibilità di una bocciatura di un candidato che abbia ampiamente dimostrato la sua preparazione sia con il suo percorso scolastico sia con le due prove scritte sostenute in precedenza.
Ciò che richiama maggiormente l’attenzione, tuttavia, non è la modifica in sé, motivata distrattamente nel decreto, quanto il tempismo della modifica stessa: questa, infatti, è stata varata qualche mese dopo alcuni episodi di cronaca riguardanti studenti e studentesse che, impegnati nel loro esame di Stato, avevano fatto “scena muta” all’orale per protestare contro un sistema scolastico improntato all’efficientismo e concentrato sulla valutazione numerica delle prestazioni effimere degli studenti piuttosto che sulla loro crescita umana e relazionale.
Il decreto andrebbe letto, di conseguenza, non come un atto conclusivo di una riforma ponderata, ragionata ed effettivamente migliorativa della scuola, ma al contrario come una reazione impulsiva ed affrettata per mettere a tacere una forma di protesta simbolica diffusasi questa estate. La protesta, peraltro, può essere più o meno condivisibile, ma ha una sua chiara motivazione: una critica profonda e particolarmente sentita del sistema valutativo italiano, incentrato su una scala numerica anonima e priva di qualsiasi giudizio esteso che accompagni il voto.
Alla luce di ciò, è inevitabile intravedere un messaggio implicito che si accompagna al decreto: il Governo non solo non ritiene necessaria una riforma del sistema valutativo della scuola italiana, ma addirittura liquida semplicisticamente ogni segnale di protesta di noi studenti come un infantile atto di protagonismo, senza nemmeno tentare di interpretarlo come un sintomo di richiesta di ascolto.
Eppure, quello che rivendichiamo come studenti non sembra essere irraggiungibile, e lo dimostrano altri sistemi scolastici nemmeno troppo lontani da noi. Nei Paesi scandinavi, infatti, la valutazione si sostanzia in lunghi giudizi descrittivi che i docenti formulano sui propri studenti, evidenziano i loro punti di forza e di debolezza: oltre ai benefici diretti, ossia un feedback completo e immediato per lo studente sul giudizio in merito alla sua prova e alla possibilità di comprendere da subito le lacune da colmare, questo sistema favorisce soprattutto un dialogo sincero e trasparente tra studente e docente, instaurando legami relazionali solidi e contribuendo alla creazione di un clima di classe sereno e stimolante.
Veniamo però alla ratio del decreto e al cambio di denominazione. Il testo della norma sostiene che l’esame debba verificare “i livelli di apprendimento conseguiti da ciascun candidato in relazione alle conoscenze, alle abilità e alle competenze specifiche di ogni indirizzo di studio” e deve valutare “il grado di maturazione personale, di autonomia e di responsabilità”, con la naturale modifica del nome da “Esame di Stato” ad “Esame di maturità”. Il problema non sorge tanto nella condivisione della necessità che questo esame valuti la crescita e la maturazione dello studente, quanto nella definizione del concetto di “maturità”: l’impressione, infatti, è che quella intesa dal decreto prediliga uno studente conforme agli standard del comune sentire, che non esca fuori dagli schemi e che segua pedissequamente i dettami esterni. In sostanza, il decreto, punendo con la bocciatura chi decida di stare in silenzio durante il colloquio orale per un atto di protesta, indirettamente ma in maniera alquanto evidente taccia di immaturità questi studenti.
Al contrario, riprendendo il significato profondo del rito di passaggio, ci sembra che la maturità sia proprio la capacità del giovane di fare delle scelte e di assumersene le responsabilità, consapevole sia delle conseguenze delle sue azioni sia del messaggio che vuole trasmettere, anche se questo significa uscire dai rigidi schemi predefiniti che la società impone. Maturità non è sinonimo di conformismo, ma piuttosto di indipendenza del pensiero critico e di capacità in una lettura libera e indipendente della realtà circostante.
La conferma della validità di questa interpretazione è da ricercare nuovamente in un Paese scandinavo, la Finlandia, che permette allo studente di scegliere il proprio percorso di studi secondo i suoi interessi, responsabilizzandolo fin da subito in piccole ma importanti scelte di vita e manifestando anche una forte fiducia nelle decisioni prese autonomamente. Sembra inoltre discutibile anche la scelta di ridurre i commissari esaminatori e, di conseguenza, le materie oggetto di esame: contrariamente alla motivazione contenuta nel decreto, che opta per questa soluzione al fine di valutare al meglio le competenze specifiche per ogni indirizzo di studio, siamo convinti che la formazione dello studente debba essere quanto più ampia e transdisciplinare possibile, favorendo uno sviluppo olistico della persona e non già settorializzata alle materie che si ritengono maggiormente valide per inserirlo nel percorso professionale. Siamo persone e cittadini prima di essere forze da incasellare nel mercato del lavoro, quindi dobbiamo aspirare ad un processo educativo trasversale ed esteso che possa formarci al meglio nella lettura dei fenomeni sociali e culturali intorno a noi.
L’esame di maturità è uno snodo importante, e in quanto tale ha delle regole che devono essere rispettate. All’interno di queste regole, però, crediamo che lo studente non debba essere limitato in alcun modo, e debba poter esprimere le proprie idee in ogni forma possibile, anche con la protesta silenziosa. Reprimere comportamenti ritenuti sovversivi – per quanto una protesta del genere possa essere definita “sovversiva” – è un passo verso lo scontro e non il dialogo. E’ sintomatico di una comunità scolastica che sta male e fatica a riconoscerlo. E’ sinonimo di una società che, spesso, non riesce a fidarsi dei suoi giovani e, promuovendo riforme come questa, dimostra di non voler fare passi avanti per ascoltarli.
Non pretendiamo un sistema perfetto, ma desideriamo sicuramente dare un contributo decisivo per migliorare la nostra scuola e vogliamo che la nostra voce venga riconosciuta e tenuta in considerazione. Il futuro di noi giovani e delle nostre comunità è qui e ora, e noi siamo pronti a realizzarlo: il cambiamento è alle porte, bisogna “solo” trasformarlo in realtà.