Nell’ambito dell’iniziativa nazionale “CITTÀ SPUGNA – Visioni e strategie per territori resilienti”, organizzata dall’Istituto Nazionale di Bioarchitettura in collaborazione con il Comune di Portoferraio, con il contributo della nascente Sezione INBAR di Livorno e Arcipelago Toscano, che si terrà sabato 4 ottobre 2025, presso il Teatro dei Vigilanti Renato Cioni – Portoferraio (LI) a seguire alle ore 17:30 si inaugurerà la mostra tematica si terrà la mostra dal titolo ARCHITETTURE SPUGNA, dedicata al tema dell’acqua come risorsa, infrastruttura e principio guida nella progettazione del territorio e della città contemporanea a cura dei Soci Esperti e sezioni INBAR. L’esposizione accompagnerà il convegno della mattina e sarà inaugurata nel pomeriggio del 4 ottobre 2025 negli spazi espositivi della Torre della Linguella di Portoferraio presso gli spazi espositivi della Torre della Linguella, a Portoferraio (Isola d’Elba).
Viviamo un’epoca in cui i cambiamenti climatici ci pongono davanti a sfide sempre più urgenti: allagamenti, ondate di calore, consumo di suolo.
Il territorio ha bisogno di nuove risposte, ma anche di recuperare saperi e pratiche antiche, ripensando il rapporto tra città e natura.
Il progetto “Città Spugna”, promosso dall’Istituto Nazionale di Bioarchitettura (INBAR) con il patrocinio del Comune di Portoferraio e la collaborazione di Legambiente, nasce proprio con questo obiettivo:
ripensare l’acqua come infrastruttura ambientale,
rendere gli spazi urbani più resilienti e vivibili,
unire progettazione, ecologia e responsabilità sociale.
Durante il convegno del 4 ottobre al Teatro dei Vigilanti, interverranno esperti di bioarchitettura, ecologia urbana, gestione delle risorse idriche, insieme a rappresentanti di istituzioni, imprese e associazioni.
Un’occasione per confrontarci, condividere esperienze e costruire strategie concrete per il futuro.
Dal 4 al 12 ottobre, la Torre della Linguella ospiterà una mostra tematica dedicata alle soluzioni “spugna”: piazze drenanti, rain garden, alberature urbane, infrastrutture verdi.
Un percorso aperto a tutti, per toccare con mano idee e visioni di una città più verde e resiliente.
Perché non basta gestire l’emergenza: serve immaginare e costruire insieme una città che sappia trattenere, assorbire e valorizzare l’acqua come risorsa, non come minaccia.
L’ARCHITETTURA DELL’ASCOLTO (a cura dell’Arch.Giò Dardano Consigliere CD INBAR,AFFARI ISTITUZIONALI)
Un pensiero sul Mediterraneo che cambia
In un Mediterraneo che respira tra il mare e il cielo, la pioggia estrema non è un incidente meteorologico, ma un’espressione.
Si presenta come epifania concentrata, condensazione di un linguaggio atmosferico che ci riguarda, ci attraversa, ci sollecita. In quel breve istante in cui l’acqua – scaldata da decenni di eccesso – incontra l’aria fredda in quota, non si verifica soltanto un fenomeno fisico: si apre un varco interpretativo.
Il cielo parla, e non in forma di allarme, ma come se volesse svelare l’eccedenza nascosta del nostro abitare.
L’errore concettuale più diffuso consiste nel leggere questi segnali come anomalie, come se il sistema fosse sano e gli eventi estremi delle deviazioni puntuali.
In realtà, ciò che chiamiamo “estremo” è semplicemente la manifestazione più sincera di un equilibrio spezzato.
È il mondo che ci restituisce la somma delle nostre dimenticanze.
Se smettiamo di pensare all’urbano come un perimetro, e cominciamo a concepirlo come una porosità, allora l’acqua diventa maestra.
Essa non distingue, non separa, non si lascia contenere da forme rigide: scava, lambisce, invade, plasma.
L’acqua è, in senso pieno, ciò che resta dopo il progetto, ma forse è anche ciò che precede ogni progettazione autentica.
1. Connettività mediterranea: una grammatica elementare
Il Mediterraneo, più che uno spazio geografico, è un ritmo.
Non è una regione, ma un’oscillazione tra la luce e la materia, tra il respiro e la roccia, tra la pelle del mare e il cielo mutevole.
La sua storia non è scritta sui muri, ma nei venti che risalgono la penisola e si infrangono contro le scogliere, i monti, i boschi e gli ulivi.
Il respiro convettivo che oggi osserviamo non è soltanto un fenomeno meteo-climatico.
È la trascrizione energetica di un accumulo storico.
Il mare, surriscaldato da estati sempre più lunghe, non cede semplicemente umidità: rilascia memoria termica, e la pioggia che ne deriva non è un’esplosione: è una nota alta di una partitura complessa, un’accentuazione del ritmo globale.
Ma noi non leggiamo.
Non perché manchino i dati, ma perché manca una grammatica della comprensione.
La cultura contemporanea ha prodotto un sapere ipertrofico e al tempo stesso afasico: sa misurare, ma non sa più ascoltare.
In questo senso, il primo atto bioarchitettonico non è costruire diversamente, ma disimparare l’infrastruttura dell’indifferenza.
2. Dalla diagnosi al linguaggio. Oltre l’adattamento
Le retoriche dell’adattamento climatico – pur necessarie – rischiano di confinarsi in una logica reattiva.
Si spostano i corpi, si rinforzano gli argini, si elevano soglie.
Tutto sembra organizzato per difendere una forma urbana che rifiuta il cambiamento: abbiamo dato vita ad una una civiltà che vuole sopravvivere a se stessa: che ne è dell’ascolto, dell’apprendimento, della trasformazione profonda?
L’acqua, nel suo fluire impetuoso, è una voce che ci chiama a una riscrittura del senso dell’abitare.
Non si tratta più soltanto di riparare i danni del passato o di prevenire quelli futuri, si tratta di comprendere che il clima non è un oggetto esterno alla città.
È un codice vitale che la città ha smesso di decifrare.
Per Baudrillard, ogni sistema tende a simulare la propria coerenza nel momento in cui perde il proprio centro.
Così l’architettura urbana simula ancora razionalità, efficienza, modernità, mentre è ormai attraversata da crisi che ne smentiscono i presupposti.
La pioggia che allaga, il caldo che cuoce, il vento che strappa: tutto ciò non sono fallimenti della natura, ma epifanie di una città che non sa più dove finisce.
3. La cura come politica dello spazio
“Cura” è una parola antica, spesso fraintesa.
Non è la gestione dei sintomi.
Non è la manutenzione.
Non è nemmeno la compassione.
È piuttosto l’attitudine a prendersi in carico la relazione.
La cura implica riconoscimento, attenzione, apertura.
Nella città, la cura non si esercita in un quartiere sanitario, ma in ogni atto che riduce la distanza tra il costruito e il vivente.
Bioarchitettura non significa solo materiali naturali o fonti rinnovabili.
È prima di tutto un metodo di pensiero.
È uno sguardo che non separa l’uomo dalla natura: il progetto dal paesaggio, la tecnica dal simbolo.
Per Hillman, l’anima si manifesta nei luoghi.
Non come presenza spirituale, ma come densità di significato. Abitare, allora, significa creare le condizioni perché quella densità emerga.
L’incontro fra bioarchitettura e paesaggio – che oggi può sembrare una frontiera specialistica – è invece il cuore della questione antropologica contemporanea.
Si tratta, in fondo, di riformulare la domanda: cosa vuol dire vivere insieme sulla Terra?
4. L’estetica del limite: imparare a non occupare tutto
Nel modello urbano dominante, ogni superficie dev’essere sfruttata, ogni margine occupato, ogni vuoto riempito.
È un’estetica della saturazione.
Ma la pioggia, il vento, il sole non funzionano così, essi hanno bisogno di spazi di assorbimento, di riserve, di interstizi.
Imparare a progettare con il clima significa anche riconoscere che il limite non è una privazione, ma una forma estetica e politica.
La bioarchitettura, in questo senso, non produce forme nuove, ma nuove relazioni con le forme, introduce la possibilità che lo spazio non serva, ma significhi.
Bauman ci ha insegnato che la società liquida non è una società senza forma, ma una società senza strutture stabili.
Il paradosso è che l’acqua – nella sua instabilità – ci chiede strutture flessibili, ma solide nel pensiero, urbanistica non come reazione a eventi futuri, ma come filosofia dell’impermanenza.
5. La città come organismo climatico
Possiamo ancora concepire la città come un organismo? Non in senso metaforico, ma funzionale.
Un corpo che respira, suda, si adatta, guarisce.
L’urbanistica moderna ha pensato la città come macchina. L’urbanistica bioecologica la pensa come ecosistema.
Il passaggio successivo – forse necessario – è quello della città come soggetto climatico.
Se accettiamo l’idea che il clima non è fuori dalla città, ma la attraversa, allora ogni decisione progettuale assume una dimensione etica.
Dove colloco un edificio?
Come oriento un’apertura?
Quale massa termica lascio emergere?
Ogni scelta non è più tecnica, ma politica, perché costruire oggi significa prendere posizione nella crisi, ma – direbbe Eco – non basta enunciare la complessità, bisogna anche costruire sistemi interpretativi che la rendano operativa.
L’architettura dell’ascolto ha bisogno di una semiotica nuova: che legga i segni del paesaggio non come ornamenti, ma come enunciati, che interpreti i flussi atmosferici come sintassi di un discorso più ampio.
6. Una nuova alleanza tra tecnica e coscienza
Nella modernità, la tecnica si è emancipata dalla coscienza, ha operato come forza autonoma, capace di produrre risultati misurabili, ma spesso cieca rispetto alle conseguenze profonde. Oggi, quella separazione non è più sostenibile.
Bioarchitettura significa ricucire quella frattura, non rinunciare alla tecnica, ma reintegrarla in una visione che abbia memoria, immaginazione e responsabilità.
Se per Vattimo, la verità non è un dato, ma un orizzonte che si apre nel dialogo progettare in modo sostenibile non è quindi aderire a un modello prestabilito, ma praticare un’ermeneutica del luogo.
Un’interpretazione costante, mai definitiva, sempre in ascolto.
7. Conclusione: abitare poeticamente la Terra
Tornare alla pioggia non per contemplarla, ma per interrogarla. Ogni goccia che cade sul cemento è un evento semiotico, un gesto che ci interpella.
Non più catastrofe, non ancora rivelazione ma un avvertimento gentile, se sappiamo ascoltare.
Non si tratta di tornare alla natura, come se essa fosse altrove, si tratta di accettare che ne siamo parte, che ogni edificio, ogni strada, ogni atto di progettazione è già un intervento sul clima, sulla vita, sul futuro.
Come scriveva Hölderlin, “poeticamente abita l’uomo sulla terra”, oggi quella poesia non è più lirica: è geopoetica.
È fatta di vento, umidità, orientamento, materiali, ombra, è una poesia del necessario, non del superfluo, una poesia nascosta nella logica stessa dell’ecologia: riconoscere che tutto è in relazione, e che nulla può essere progettato senza tener conto del resto.
Questo è il compito della bioarchitettura: non inventare il futuro, ma risintonizzarci con il presente profondo, non dominare il paesaggio, ma entrarvi in risonanza.
Non rispondere all’emergenza, ma riconoscere che ogni gesto, anche minimo, è già una forma di cura.
Documenti
A cura di
Questa pagina è gestita da
Istituto Nazionale di Bioarchitettura
Ulteriori informazioni
Ultimo aggiornamento