Psoriasi pustolosa generalizzata: una patologia della pelle potenzialmente letale

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Una ricerca americana conferma l’aumentato rischio di mortalità associato alla malattia. Il commento della prof.ssa Maria Concetta Fargnoli sui dati dello studio e sulle implicazioni terapeutiche

Febbre alta, brividi, pustole dolorose che possono confluire in estese raccolte purulente - i cosiddetti “laghi di pus” - e, nei casi più gravi, in un’infiammazione cutanea estesa e violenta (eritrodermia), associata a un rapido deterioramento delle condizioni generali. Per chi vive con la psoriasi pustolosa generalizzata (GPP), un “flare”, ossia un’improvvisa riacutizzazione della malattia, può significare molto più di un disagio cutaneo e trasformarsi in breve tempo in una vera e propria emergenza. “Un nuovo studio retrospettivo conferma quello che noi clinici già sapevamo per esperienza diretta: la GPP non è solo una variante aggressiva di psoriasi, ma una patologia a sé stante, estremamente grave e potenzialmente letale”, afferma Maria Concetta Fargnoli, Direttore Scientifico dell’IRCCS Istituto Dermatologico San Gallicano a Roma e Professore Ordinario di Dermatologia presso l’Università degli Studi dell’Aquila.

UNA PATOLOGIA POTENZIALMENTE GRAVE

Ad oggi non esiste una definizione univoca di psoriasi pustolosa generalizzata. Nel mondo occidentale ci si riferisce alla Consensus ERASPEN (European Rare and Severe Psoriasis Expert Network) che, nel 2017, ha definito la GPP come “una malattia auto-infiammatoria distinta dalla psoriasi, caratterizzata da un’improvvisa, violenta e diffusa eruzione cutanea eritematosa associata alla formazione di pustole cutanee sterili, contenenti neutrofili, in diverse aree corporee”. Il tratto distintivo della patologia, oltre alla pustolazione, è la presenza frequente di sintomi infiammatori sistemici, come febbre, malessere generale, affaticamento, edema, congiuntivite, artrite, uveite e colangite neutrofila. I meccanismi patogenetici alla base della GPP non sono ancora del tutto chiari, ma è noto che prevale la disregolazione del sistema immunitario innato, spesso determinata da mutazioni nel gene IL36RN che alterano la funzionalità dell’interleuchina 36 (IL-36). 

In fase acuta, il paziente con GPP deve essere considerato come un grande ustionato: la pelle si esfolia, c’è una perdita importante di liquidi, squilibri elettrolitici, rischio di sepsi, complicanze polmonari e rischio di shock cardiocircolatorio”, sottolinea la prof.ssa Fargnoli. “Nonostante questa gravità clinica sia nota da tempo, le stime di mortalità riportate finora sono sempre state eterogenee, con tassi che variavano dal 2% al 7%”. 

Un recente studio statunitense, pubblicato a maggio sulla rivista Journal of Psoriasis and Psoriatic Arthritis, ha analizzato il rischio di mortalità nella GPP, fornendo per la prima volta dati più precisi sulla popolazione bianca.

UNO STUDIO SUL RISCHIO DI MORTALITÀ

Quella condotta dai ricercatori americani è un’analisi retrospettiva basata su dati provenienti dai registri assicurativi sanitari nazionali. I ricercatori hanno preso in esame 2.649 pazienti appartenenti alla coorte denominata “All-GPP” (ossia persone con psoriasi pustolosa generalizzata, con o senza psoriasi a placche), confrontandoli con 127.495 pazienti con sola psoriasi a placche e con un campione rappresentativo della popolazione generale composto da 19.641.441individui sani. I risultati parlano chiaro: nel primo anno dopo la diagnosi, la mortalità tra i pazienti con psoriasi pustolosa generalizzata (All-GPP) è risultata dell’1,1%, contro lo 0,4% osservato nei pazienti con la sola psoriasi a placche e lo 0,2% della popolazione generale. Questo significa che, nei dodici mesi successivi alla diagnosi, il rischio di morte è più che doppio rispetto alla psoriasi comune e quasi quintuplicato rispetto ai controlli sani. Anche nel periodo di osservazione più lungo il tasso di mortalità nei pazienti con GPP è rimasto elevato: 6,3% contro il 3,1% nella psoriasi a placche e l’1,5% nella popolazione generale. In termini relativi, ciò si traduce in un rischio di morte quattro volte superiore rispetto alla popolazione generale e quasi una volta e mezza rispetto ai pazienti con psoriasi a placche.

 “Sono numeri che fanno riflettere”, afferma la prof.ssa Fargnoli. “Per la prima volta abbiamo a disposizione un’analisi quantitativa solida sull’impatto della GPP in termini di mortalità”. Resta, però, un limite importante: lo studio non fornisce informazioni sulle cause specifiche di morte. “Questo è un aspetto rilevante - sottolinea la prof.ssa Fargnoli - perché nell’articolo si parla di mortalità per tutte le cause, e quindi non possiamo stabilire se i decessi siano direttamente attribuibili alla GPP, alle sue complicanze sistemiche, come la sepsi, o ad altri fattori clinici intercorrenti. Tuttavia è molto probabile che, anche disponendo di questi specifici dati, il risultato sulla mortalità sarebbe rimasto statisticamente significativo, così com’è accaduto per l’aggiustamento relativo alle comorbidità cliniche condotto dagli studiosi americani”.  

I ricercatori, infatti, hanno tenuto conto anche della presenza di patologie concomitanti - in particolare malattie cardiovascolari, metaboliche e renali - ma il rischio di morte tra i pazienti con GPP è rimasto significativamente più elevato rispetto agli altri gruppi. “Proprio per la presenza di queste comorbidità (il paziente con GPP è spesso iperteso, dislipidemico, diabetico, cardiopatico, ecc.), nel momento acuto del “flare” la situazione può complicarsi in modo drammatico con uno scompenso cardiocircolatorio, aggravando ulteriormente il quadro clinico e portando rapidamente al decesso”, spiega la prof.ssa Fargnoli 

UNA DIAGNOSI PRECOCE PUÒ FARE LA DIFFERENZA

Il dato più evidente dello studio è quello relativo al primo anno dopo la diagnosi: è in questo periodo che la mortalità nei pazienti con GPP risulta particolarmente più alta rispetto agli altri gruppi. Un elemento che suggerisce quanto le prime riacutizzazioni – spesso violente – possano incidere in modo decisivo sulla prognosi.

Eppure, nonostante la gravità clinica della malattia sia nota, la GPP continua a essere poco riconosciuta dai clinici, in particolare dai medici non dermatologi. “I pazienti, soprattutto alla prima manifestazione, arrivano in pronto soccorso e vengono gestiti come se avessero un’infezione cutanea, con terapie antibiotiche empiriche”, spiega la prof.ssa Fargnoli. “Solo in un secondo momento si arriva alla diagnosi corretta, grazie alla consulenza dermatologica specialistica. Ma questo tempo perso può essere critico”.

Da qui la necessità di investire nella formazione e nell’educazione clinica, soprattutto nei reparti di medicina d’urgenza, tra i medici specializzati nelle varie discipline potenzialmente coinvolte nella gestione del paziente e tra i dermatologi che lavorano sul territorio. “Il sospetto diagnostico deve esserci: quando un paziente si presenta con eritema, pustole diffuse e febbre, si deve pensare anche alla GPP”, sottolinea l’esperta. 

NUOVE STRATEGIE TERAPEUTICHE PER CAMBIARE IL DECORSO DELLA PATOLOGIA

Se riconosciuta in tempo, oggi la GPP può essere affrontata in modo mirato anche nelle sue fasi più critiche. Dall’inizio di quest’anno, infatti, è disponibile anche in Italia un farmaco specifico: spesolimab, anticorpo monoclonale che blocca il recettore dell’interleuchina‑36. “Approvato per il trattamento delle riacutizzazioni della psoriasi pustolosa generalizzata, l’avvento di spesolimab ha rappresentato una svolta importante nella gestione della malattia”, spiega la prof.ssa Fargnoli. Tuttavia, una volta risolta la fase acuta, il farmaco viene sospeso e il paziente torna a vivere nel timore costante di una nuova riacutizzazione. Uno stress cronico e logorante che, paradossalmente, può fungere da fattore scatenante di un nuovo evento acuto di GPP, innescando un circolo vizioso flare-stress-flare da cui il paziente esce stremato.

Uscire dalla logica dell’intervento “in emergenza” e iniziare a pensare a una gestione cronica della patologia avrebbe un impatto significativo non solo sulla qualità della vita ma, potenzialmente, anche sulla sopravvivenza. Questa ipotesi è al centro dello studio clinico EFFISAYIL‑2, che ha valutato l’impiego di spesolimab per la prevenzione delle riacutizzazioni della GPP. Sulla base dei positivi risultati ottenuti nella sperimentazione, il Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP) dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha recentemente raccomandato l’approvazione del farmaco in regime di profilassi, aprendo così la strada a un cambio di paradigma terapeutico. “In questo senso, una semplice iniezione sottocute a intervalli regolari potrebbe modificare radicalmente la prognosi di questa patologia, tanto rara quanto grave”, conclude la prof.ssa Fargnoli.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Giulia Virtù)