Sudan. Lo specchio del mondo - Azione Cattolica Italiana

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La guerra civile in Sudan ha avuto inizio nel 2023, tuttavia è stata troppo spesso trascurata dai media. Questa realtà le è valsa il triste appellativo di “conflitto dimenticato”, pur essendo una delle peggiori crisi umanitarie di sempre. Una guerra che ha costretto più di 12 milioni di persone a lasciare le proprie case a causa delle violenze e della fame. Ne abbiamo parlato con Filippo Ungaro, portavoce dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati).

Si parla sempre del Sudan come di un “conflitto dimenticato”, perché a suo avviso lo è?

Non c’è una risposta precisa su questo, però ritengo lo sia in quanto è percepito come più “lontano”. È sicuramente meno vicino alle preoccupazioni e agli interessi occidentali. Certamente è una visione miope che produce delle conseguenze soprattutto in termini di minore supporto finanziario e di impegno nella ricerca di una soluzione politica alla guerra. Il Sudan attualmente può essere immaginato come lo specchio dell’attuale situazione internazionale. Infatti, ci sono tutti gli “ingredienti”: un conflitto cruento, lo scontro tra diverse milizie – il che comporta una possibilità di estensione del conflitto – molti interessi economici, il forte coinvolgimento dei civili e l’incapacità di raggiungere una soluzione politica.

Il conflitto è anche particolarmente cruento e si registrano massicce violazioni dei diritti umani. A metà luglio un gruppo di avvocati sudanesi per i diritti umani ha accusato i paramilitari di aver razziato e incendiato diversi villaggi, uccidendo quasi 300 persone, tra cui bambini e donne incinte. Quali sono i dati a vostra disposizione e chi è più colpito dalle violazioni dei diritti umani?

In questi due anni ci sono state riferite molte violazioni dei diritti umani, a partire dall’utilizzo diffuso delle violenze sessuali come arma di guerra. In particolare, si sono verificati diversi casi nel Darfur e ad El Fasher, zona occidentale del paese, in cui da mesi le persone vivono sotto assedio.

Io sono stato in Chad a febbraio, vicino al confine con il Sudan, ad Adrè, che è uno dei principali punti di ingresso dei profughi. Lì, gran parte donne, tra cui molte minori, ha subito violenze sessuali e ha riferito di aver perso mariti, fratelli e figli, uccisi o rapiti per essere impiegati quali combattenti. Ecco, la situazione degli stupri è molto preoccupante. Inoltre, il massiccio taglio ai fondi destinati all’aiuto umanitario ha costretto a ridurre gli interventi di supporto alle donne vittime di violenze. In questo modo la violenza sessuale resta un trauma non elaborato, con un impatto negativo sul futuro delle donne. Questo ci deve far riflettere anche su un altro punto: è importante dare sostegno e un primo soccorso alle persone in fuga, ma è altrettanto importante dare una possibilità di ricostruire la propria vita; dare una prospettiva per il futuro.

Si è parlato del Sudan anche come uno dei peggiori disastri umanitari di cui si ha memoria. Infatti, oltre ad un altissimo numero di vittime e feriti, si assiste anche ad un grande flusso migratorio di rifugiati, specialmente verso il Chad.

Sì, il conflitto ha prodotto 12 milioni di sfollati, di cui 7,4 milioni di sfollati interni e 4 milioni che hanno lasciato il paese. La maggior parte di questi ha raggiunto il confinante Chad. Bisogna considerare che i paesi vicini di arrivo sono anch’essi caratterizzati da una serie di fragilità e sono molto poveri. Ciononostante, hanno tenuto sempre i confini aperti e c’è stata una grande solidarietà, soprattutto da parte delle istituzioni locali, che hanno riconosciuto l’importanza dell’attività di accoglienza.

Però questi paesi devono essere aiutati, proprio alla luce della già difficile situazione di interna. Io ho visitato una scuola superiore a Farchana, in Chad. In quell’occasione ho avuto un’ottima impressione sulla struttura; infatti, le strutture che sorgono nell’interno funzionano meglio rispetto a quelle poste sul confine, dove molto spesso gli insediamenti sono anche spontanei. Ebbene, poco dopo la mia visita, la scuola è stata chiusa a causa del taglio dei finanziamenti alla crisi sudanese. Il risultato è che molte ragazze sono state costrette a sposarsi, mentre i ragazzi hanno deciso di intraprendere il difficilissimo viaggio verso l’Europa.  

Più volte ha fatto riferimento al taglio dei finanziamenti alle Agenzie delle Nazioni Unite, specialmente quelli destinati all’aiuto umanitario. Che impatto ha avuto sul vostro lavoro?

Personalmente non ho mai sostenuto la tesi secondo cui un minor flusso di aiuto si traducesse automaticamente in un aumento negli arrivi di rifugiati; tuttavia, i dati ad oggi mostrano una corrispondenza in tal senso. Inoltre, è bene sottolineare che la riduzione degli aiuti non riguarda solo gli Stati Uniti, ma è una politica attuata anche in Europa, per esempio dal Regno Unito. Con riferimento all’Italia, al momento non si è registrata alcuna diminuzione. Sicuramente la quota destinata all’aiuto allo sviluppo potrebbe essere maggiore; tuttavia, non vi è stata alcuna flessione.

È bene ricordare che gli aiuti non servono solo per far fronte a situazioni emergenziali, ma sono uno strumento imprescindibile in termini di opportunità di sviluppo e stabilizzazione dei flussi migratori. In più, va ricordato che la grande maggioranza delle persone in fuga dai conflitti – nonostante la percezione in Europa sia ben diversa – migra verso i paesi limitrofi, quindi principalmente in Africa, Asia e America Latina. Pertanto, il sostegno finanziario è servito ad alleviare la situazione di crisi dei rifugiati in contesti già difficili.

Nel caso del Sudan, quale è stato l’effetto del ridotto flusso di aiuti?

Dinanzi alla carenza di fondi cerchiamo di ottimizzare le nostre risorse ovviamente. Ci sono stati dei tagli al personale, che si sono tradotti in una ridotta capacità d’azione e minori interventi. Attualmente, la crisi in Sudan è finanziata solo con il 30% di ciò che servirebbe. Così veniamo messi davanti a scelte difficili e molte persone in condizione di estrema vulnerabilità restano escluse. Noi però non ci arrendiamo. Siamo in dialogo con tutte le realtà per cercare soluzioni e l’apporto dei donatori è essenziale in questo momento. Infatti, siamo riusciti ad ottenere un grande aiuto dal settore privato, che mostra un crescente interesse. In Italia, ad esempio abbiamo avviato il progetto “Welcome”, con l’obiettivo di mettere in contatto aziende e rifugiati e ad oggi siamo arrivati a più di 700 aziende che aderiscono e impiegano rifugiati. L’Italia ha donato 9 milioni di euro per un centro multifunzionale in Chad.

Il Sudan è stato investito anche da una carestia e sta affrontando una situazione sanitaria molto complessa.

Bisogna considerare che sia il Sudan che il Chad (primo paese di arrivo degli sfollati sudanesi) sono fortemente investiti dal fenomeno del cambiamento climatico, con un alternarsi di alluvioni e siccità. Questa realtà complica molto il quadro. A ciò si aggiungono una forte carestia, che ha interessato soprattutto il Darfur, in particolare in 11 aree della regione, ed un’epidemia di colera, sviluppatasi tanto in Darfur quanto in Chad. Al 27 agosto sono stati registrati 51 mila casi di colera in 18 regioni del Sudan. In un campo di sfollati in Chad, a Dougui, nello stesso periodo si sono verificato 1000 casi sospetti e 68 decessi.

Lei prima ha fatto riferimento ai ragazzi che provano la strada del “viaggio” (il terribile viaggio verso l’Europa attraversando il Mediterraneo). Che dati avete in merito? Sono stati attivati dei canali sicuri per i profughi sudanesi?

Ad oggi più di 360 mila sudanesi sono in Libia e probabilmente affronteranno la traversata. Lo scorso 13 settembre vi è stato un naufragio al largo delle coste libiche, di fronte Tobruk, che ha causato 61 dispersi su 74 passeggeri, la maggior parte dei quali sudanesi. In generale la migrazione dal Sudan all’Europa è aumentata e anche se è molto presto per stilare un bilancio definitivo, qualche segnale nel senso di un aumento c’è. Abbiamo assistito anche ad una migrazione di ritorno, che riguarda circa un milione di persone. Molti sudanesi sono scappati, ma di fronte alla totale assenza di assistenza e servizi essenziali hanno deciso di fare rientro in Sudan, tra le macerie.

Per quanto riguarda i canali sicuri, Italia sta organizzando delle evacuazioni dalla Libia, anche grazie alla collaborazione di tante piccole realtà. Questi canali andrebbero però potenziati. Andrebbe anche aumentato il lavoro di ricerca e soccorso, con un approccio regionale. Inoltre, l’integrazione resta una sfida importante.

Filippo Ungaro, portavoce dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)
Recapiti
Mariantonietta D'Apolito