Comunicare la tradizione: il caso Mercato Centrale

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77 milioni di fatturato raccontando artigiani con illustrazioni fatte a mano. Un incontro a Torino con Umberto Montano e la possibilità di ribaltare le regole del food marketing.

Umberto Montano e Michele Franzese

L’abbraccio arriva prima delle parole. Umberto Montano, fondatore di Mercato Centrale, è così: solare, modesto, ma con negli occhi la consapevolezza di chi ha capito qualcosa che gli altri ancora non vedono.

Lo incontro nel suo Mercato di Torino, nel cuore multietnico di Porta Palazzo. Mentre cammino tra le antiche ghiacciaie – archeologia industriale di quando si conservava il cibo in modo naturale – capisco di non avere davanti un semplice imprenditore della ristorazione, ma un maestro di comunicazione che ha ribaltato le regole del suo settore.

Quando parla dei suoi mercati lo fa con un amore che rende difficile interromperlo. Non è un pitch: è un narratore che ha trovato la sua storia e la sa raccontare. “La bontà è elementare”. Quella frase apparentemente banale nasconde una delle scelte strategiche di comunicazione più radicali del panorama italiano del food.

La strategia della sottrazione

In un settore dominato dalla food photography patinata, dalle immagini iper-prodotte e dai video in slow motion di ogni singolo piatto, Mercato Centrale ha fatto la scelta opposta: sottrazione.

Ha costruito tutto su un principio contro-intuitivo. In un momento storico in cui siamo “bombardati da immagini non sempre reali e parole prive di senso”, hanno scelto di eliminare il superfluo. Non aggiungere rumore al rumore.

Il risultato più evidente?

La decisione radicale di “illustrare tutto” invece di fotografare. Niente food porn, niente piatti impeccabili sotto luci da studio. Solo illustrazioni fatte a mano che raccontano gli artigiani come personaggi, i prodotti come storie, i luoghi come teatro.

Questa scelta non è estetica: è strategica. Crea un’identità “irripetibile e inconfondibile” in un mercato dove tutti sembrano uguali. E soprattutto, sposta la narrazione dal prodotto (che tutti possono copiare) all’universo valoriale (che nessuno può replicare).

Il payoff “La bontà è elementare” diventa così non uno slogan, ma un principio operativo che informa ogni scelta comunicativa: meno è più, l’essenziale batte il ridondante, la semplicità è l’ultima sofisticazione.

Il radicamento batte la localizzazione

Ma la vera genialità strategica sta in un principio che Umberto ha sempre dichiarato: ogni mercato è “simile per forza e diverso per scelta”. Questo non è marketing di localizzazione. È radicamento culturale.

Ogni sede ha un linguaggio visivo completamente diverso, costruito in dialogo con l’identità della città:

Roma: lo “scarabocchio” e la “cancellatura” – un gesto che afferma eliminando il superfluo

Torino: il triangolo “primordiale, spigolosivo, sovversivo” e i neon di Merz come “comunicazione d’arte”

Milano: la stratificazione della memoria, la poesia visiva che evoca il ritmo della Stazione

Non si tratta di cambiare colori o font. Si tratta di creare un messaggio che può esistere solo in quel luogo specifico, perché dialoga con elementi culturali – l’arte povera a Torino, la monumentalità romana, la stratificazione milanese – che non possono essere trapiantati altrove.

Gli artigiani come brand heroes

Al centro di tutta l’architettura comunicativa c’è una scelta apparentemente semplice ma rivoluzionaria: rimettere al centro gli artigiani del gusto come protagonisti della narrazione.

Non i grandi chef televisivi. Non le celebrity. Il salumiere, il pescivendolo, il panettiere. “Quelle attività che fino a poco tempo fa riempivano di profumi i vicoli delle nostre città e che oggi tendono a sparire”, sono parole di Umberto.

Ma questa non è nostalgia: è strategia narrativa. Gli artigiani vengono trasformati in “personaggi” con tratti distintivi, illustrati, umanizzati. La comunicazione non vende prodotti: costruisce un “teatro del gusto” dove ogni bottega ha un protagonista con la sua storia.

E qui sta il colpo di genio: il criterio di selezione degli artigiani – le “due P con C” (Passione e Professionalità con Cura) – diventa esso stesso comunicazione. Il brand non si limita a comunicare autenticità: dichiara di operare secondo gli stessi principi. Questa coerenza tra messaggio esterno e processo interno crea un circolo virtuoso di credibilità che nessuna campagna pubblicitaria potrebbe costruire.

5 lezioni per chi fa comunicazione come noi

Mentre esco dal Mercato, attraversando le bancarelle di Porta Palazzo, ripenso a ciò che ho visto. La storia di Mercato Centrale offre lezioni concrete per chi fa comunicazione.

1. Meno è strategia

In un mondo sovracomunicato, la sottrazione batte l’addizione. Eliminare il superfluo è più efficace che aggiungere elementi.

2. Il radicamento crea barriere competitive

La localizzazione adatta, il radicamento crea. Un messaggio che può esistere solo in quel contesto è impossibile da copiare.

3. La coerenza operativa genera credibilità

Quando i tuoi valori dichiarati sono anche i tuoi criteri operativi reali, non hai bisogno di proclamare autenticità: si percepisce.

4. L’arte è business

La scelta di illustrare tutto e dialogare con artisti come Merz non è decorazione: crea distintività e memorabilità che trascendono il settore.

5. Il brand emerge dai luoghi, non li colonizza

Il valore che fluisce dal basso verso l’alto è più autentico e resistente del valore che viene imposto dall’alto.

“Non voglio copiare nessuno, anzi spero che qualcuno capisca e mi copi, sarei contento.”

Umberto Montano

Ma la verità è che copiare Mercato Centrale è quasi impossibile. Perché non si tratta di replicare un format: si tratta di saper ascoltare l’anima di un luogo e tradurla in un linguaggio che può esistere solo lì.

È per questo che abbiamo scelto il Mercato Centrale di Torino per lanciare la nostra Future Week di Torino il 13 novembre. Perché qui si respira un’innovazione che non dimentica le radici, una comunicazione che non urla ma sussurra, un’autenticità che non ha bisogno di proclamarsi per essere percepita.

E questa, forse, è la più grande lezione di comunicazione: nella tradizione c’è più futuro di quanto pensiamo. Basta saperla raccontare.

Questo articolo fa parte della serie “Innovatori Italiani” di SCAI comunicazione, dove raccontiamo storie di imprenditori che stanno ridefinendo il rapporto tra business, comunicazione e territorio.

Recapiti
michele franzese