Dalle difficoltà sul lavoro all’impossibilità di svolgere una vita “normale”: il racconto della difficile convivenza con una patologia invisibile
“La mia quotidianità negli ultimi due anni è drasticamente cambiata. Una volta dormivo quattro ore per notte e mi bastava. Avevo una vita strapiena e nulla riusciva a fermarmi: gestivo la famiglia, un lavoro impegnativo e un allevamento di border collie, che poi ho dovuto chiudere perché non riuscivo più occuparmi fisicamente di tutto. Oggi devo scegliere cosa posso fare e cosa no, mi manca la forza nelle gambe e nelle mani. Anche il tappo di una bottiglia può diventare un ostacolo”. Chiara Lunedei ha 47 anni e vive a Ferrara. È un’agente della Polizia di Stato da quando di anni ne aveva 20. La sua storia di paziente è cominciata 23 anni fa, nel momento in cui, dopo la tiroidectomia totale, nella sua vita è comparsa una malattia cronica e poco conosciuta: l’ipoparatiroidismo.
“Prima della diagnosi ero stata un’atleta, lo sport agonistico era il mio pane quotidiano, avevo praticato arti marziali e canottaggio, andavo a correre quasi tutti i giorni”, racconta. “Vivevo a Milano, ero già sposata e avevo due bambine, ma questo non mi impediva di svolgere servizi molto impegnativi. Insomma, non ero certo una che faceva danza classica, dove c’era adrenalina, c’ero io”.
L’iter medico ed esistenziale di Chiara parte da un intervento di asportazione totale della tiroide. Nel corso dell’intervento, deciso a scopo preventivo per una storia familiare di carcinomi tiroidei, le asportano anche le paratiroidi, piccole ghiandole fondamentali per regolare l’assorbimento del calcio nell’organismo. “Mi dissero che la tiroide andava tolta e che, durante l’intervento, erano stati costretti a rimuovere anche le paratiroidi. Per questo ora non riesco ad assorbire il calcio tramite bocca o intestino”. Da quel momento per Chiara ha inizio una discesa inesorabile. “È stata un’involuzione graduale, ma con gli anni la situazione è diventata gravissima”, spiega. “I primi 12 anni sono trascorsi abbastanza bene, solo qualche crisi isolata di ipocalcemia. Sono andata al Pronto soccorso tre o quattro volte per via di forti formicolii alle mani e ai piedi, ma me la sono sempre cavata con qualche banale flebo di calcio per tornare a casa il giorno dopo”. Poi gli episodi sono peggiorati sia in quantità che come intensità e i livelli di calcio sono diventati talmente bassi da provocare anche il rischio di arresto cardiaco per il QT sempre più lungo. Parallelamente, questo squilibrio provocava una marcata riduzione di minerali essenziali, come il magnesio e il potassio, aggravando ulteriormente il quadro clinico.
Negli anni è seguito qualche ricovero più lungo per accertamenti e, infine, è arrivata la diagnosi definitiva di ipoparatiroidismo: “Una malattia da non confondere con l’ipotiroidismo, che è una cosa completamente diversa”, precisa Chiara. “L’ipotiroidismo riguarda gli ormoni tiroidei, l’ipoparatiroidismo l’incapacità di assimilare il calcio a causa dell’assenza del paratormone (PTH). I miei esami della tiroide risultano quasi sempre perfetti, ma in assenza delle ghiandole paratiroidi, ovvero del PTH, l’organismo non riesce ad attivare la vitamina D3 e, di conseguenza, ad assorbire correttamente il calcio”. Il problema per Chiara è che quando crolla il livello del calcio, è sufficiente una sudata forte, una febbre alta o un periodo di stress particolarmente intenso per far precipitare anche magnesio, potassio e fosforo. “Purtroppo i medici spesso lavorano a compartimenti stagni, concentrandosi sul sintomo immediato senza considerare il quadro completo. Invece l’ipoparatiroidismo è una malattia sistemica, che coinvolge molti aspetti diversi. Nel mio caso, per esempio, per sopperire alla carenza mi somministravano dosi massicce di calcio: invece di un grammo al giorno, arrivavo a quattro o cinque, con il rischio di compromettere i reni”.
E poi ci sono le conseguenze a livello neurologico, l’ultima battaglia di Chiara. “Ogni mattina mi sveglio con i piedi bloccati a martello”, racconta. “Le mani sono piegate come quelle di un anziano dopo un ictus, a volte ci vogliono dieci minuti per riuscire ad aprire le dita normalmente. Da cosa deriva quindi questa neuropatia periferica?”, si chiede. “È proprio su questo punto che vorrei che i medici andassero a fondo”, insiste. “Troppe volte non mi sono sentita ascoltata. Vorrei che studiassero di più noi pazienti cronici. Perché le persone con un ipoparatiroidismo cronico e grave come il mio sono pochissime. Manca uno studio su cosa significhi vivere con questa cronicità giorno dopo giorno, per decenni. Non c’è una ricerca che vada oltre l’emergenza immediata causata dalla carenza di calcio e che guardi a tutti quegli effetti a lungo termine che distruggono la qualità della vita”.
La situazione di Chiara è precipitata qualche anno fa, dopo la perdita di suo marito a marzo del 2021. Il Natale successivo si è presentata la crisi più brutta della sua vita, a cui è seguito un periodo in ospedale. “È stato un ricovero molto lungo”, racconta, “quando sono uscita ero messa molto male. Per un paio di mesi ho trascinato la gamba destra perché non reagiva, era quasi completamente immobile. Avevo perso la sensibilità, era come trascinarmi dietro un pezzo di carne. Lo scorso inverno, poi, si è manifestato anche il fenomeno di Raynaud: le dita delle mani si gonfiano, diventando completamente bianche, bianche come il latte, talmente bianche che fa impressione guardarle”. È accaduto mentre Chiara era alla guida di un’auto durante un’operazione di pattuglia, forse il momento peggiore in cui poteva succedere. “Perché poi non c’è più nessuno che vuole venire in macchina con te, hanno tutti paura che capiti qualcosa che non sono in grado di affrontare”. Un’altra volta, invece, ha avuto un forte scompenso cardiaco a causa dell’ipocalcemia grave mentre si trovava sola in centrale operativa. “E così giorno dopo giorno vieni emarginata anche sul lavoro, non sei più una risorsa ma solo un problema da gestire insieme agli infiniti day hospital”.
Fino al Chiara 2018 ha svolto servizi operativi in Polizia. Quando si è trasferita a Ferrara, qualche mese dopo la scomparsa del marito, voleva tornare alle operazioni in strada, ma il ricovero in ospedale ha fatto saltare ogni piano. “Al lavoro non è facile far capire ai colleghi e ai superiori le difficoltà della mia malattia”, dice. “Perché se ti manca un braccio o sei su una sedia rotelle si vede bene che sei una persona disabile. Ma se hai una malattia che ‘ti lavora dentro’, senza manifestazioni eclatanti, sembri solo furba. Per questo devo sempre implorare di non farmi svolgere servizi troppo impegnativi o in condizioni meteo sfavorevoli sia per il caldo che per il freddo”. Chiara ha ottenuto solo il 46% di invalidità, molto meno di quanto previsto dalle linee guida: infatti, per i casi di ipoparatiroidismo non suscettibile di utile trattamento, come il suo, la tabella ministeriale prevede da un minimo del 91% al 100%. “Mi sono fatta fregare come un pollo”, ammette, spiegando il ricatto psicologico subito: “Ti spaventano, attaccandosi al fatto che, se ti danno quanto previsto, ti toglieranno la patente, cosa che nel mio caso significherebbe sottrarmi la possibilità di vivere e sopravvivere. Non ho nessuno che mi aiuti e vivo completamente isolata in un contesto rurale. La mia auto è l’unico filo che mi lega al mondo esterno. Sono debole ma guido con responsabilità, togliermi la patente significherebbe anche dover lasciare il lavoro”. Infatti, il suo timore più grande è perdere la divisa per passare ai ruoli civili: “Se ti va bene, con un'idoneità parziale, potresti riuscire a rimanere nella tua Caserma o in Questura. Se ti dice male, e ti transitano ai ruoli civili, ti mandano probabilmente presso altre pubbliche amministrazioni”.
Oggi, con il progredire della malattia, Chiara non riesce a svolgere attività impegnative come uscire in pattuglia normalmente, guidare per ore o fare i posti di blocco. “Per gestire una volante della Polizia stradale occorrono riflessi pronti e un’ottima presa, e io mi sento una zavorra anche nei confronti del collega di turno che lavora con me”, chiarisce. “Inoltre negli ultimi tempi mi è calata la vista in maniera impressionante. Lo scorso marzo mi hanno operato di cataratta, per poi scoprire che probabilmente non era una cataratta dovuta ai miei 47 anni, ma all’eccesso di calcio e cortisone che mi è stato somministrato massicciamente durante i ricoveri ospedalieri per correggere con urgenza l’ipocalcemia grave”. Ma i sospetti di Chiara vanno oltre. I medici le hanno trovato “una lesione al cervello che non sanno di che natura sia. Mi hanno ribaltato come un calzino”, racconta, spiegando di aver effettuato numerosi esami. Alla fine è stata lei a ipotizzare una possibile causa: “Gli ho chiesto se non potesse dipendere dall’accumulo di calcio nei gangli della base e in questo modo gli messo la pulce all'orecchio”.
Sono tante le cose che Chiara non riesce a fare più: “Mi sono venuti tutti i nodi nelle dita. Cucivo, ma non riesco più neanche a tenere un ago fra le dita. Non posso più suonare neppure la chitarra né salire su una sedia per pulire la cappa della cucina, mia nonna che ha 85 anni è più agile di me. Tutte le attività quotidiane diventano una sfida con me stessa e una fonte di grande ansia”. E poi c’è la stanchezza cronica che è diventata una compagna costante. “Non è depressione, è sentirsi impotenti”, insiste Chiara. “La mente vorrebbe fare, ma il corpo non reagisce, così aumentano le frustrazioni e svanisce la voglia di fare qualsiasi cosa”. Una boccata di ossigeno è arrivata ultimamente da un nuovo farmaco iniettabile, a base di palopegteriparatide, e soprattutto dall’incontro con l’APPI, l’Associazione per i pazienti con ipoparatiroidismo. “Qui ho trovato conforto”, conclude. “Ci sono tutte persone che hanno la mia stessa malattia, persone a cui puoi parlare con serenità, senza che ti guardino come fossi un’aliena. Per la prima volta mi sono sentita meno sola. Dottori ascoltateci!”.