Malattie rare cardiache, Merlo (SIC): “Fondamentale la formazione dei cardiologi e il lavoro in rete”

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Oggi la Società Italiana di Cardiologia lavora attivamente in collaborazione con altre società scientifiche per combattere l’ageismo sanitario

Promuovere la formazione a 360 gradi, coprendo ogni ambito della cardiologia, incluse le malattie rare, è da sempre la missione della Società Italiana di Cardiologia (SIC). Un impegno, quello delle malattie rare, che oggi si estende con forza al mondo dell’adulto (in particolare alle patologie del cuore ipertrofico), fino a poco tempo fa considerate rare. Ne abbiamo parlato con il Prof. Marco Merlo, professore associato di Cardiologia del Dipartimento Cardio-Toracico-Vascolare dell’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (ASUGI) e dell’Università di Trieste, membro attivo della SIC, per approfondire le prospettive aperte dalla formazione e dalla collaborazione scientifica sulle malattie rare cardiache.

Prof. Merlo, la SIC parla di formazione “a 360 gradi”. Cosa significa concretamente?

La missione della Società Italiana di Cardiologia è chiara: fare formazione a tutti i livelli, coinvolgendo ogni area della disciplina e ogni fascia d’età dei pazienti — dal bambino all’adulto, fino al paziente anziano. L’esempio più lampante è, negli ultimi anni, è quello dato dalle malattie primitive del cuore ipertrofico, un gruppo di condizioni che abbiamo sempre considerato raro, ma che la ricerca recente ci ha invitato a rivalutare. Parliamo di cardiomiopatia ipertrofica e malattia di Anderson-Fabry, ma anche di amiloidosi cardiaca, dove la diagnosi precoce può davvero cambiare la storia clinica del paziente, spesso anziano e portatore di forme non geneticamente determinate. Con la SIC-GE, la Società di Cardiologia Geriatrica, stiamo per esempio concentrando l’attenzione sulle modalità di referral del paziente anziano con comorbidità e con sospetta amiloidosi cardiaca da parte del cardiologo del territorio al cardiologo specialista in cardiomiopatie.

Perché insiste tanto sulla “cultura del sospetto clinico”?

Perché senza sospetto clinico non c’è diagnosi, e senza diagnosi non c’è trattamento. Molte di queste patologie vengono ancora riconosciute troppo tardi, quando le opzioni terapeutiche, nonché la loro efficacia, si riducono drasticamente. Dobbiamo imparare a “pensare raro” anche di fronte a quadri che possono sembrare comuni: un’ipertrofia ventricolare inspiegata, una storia familiare di morte improvvisa o segni extracardiaci atipici devono accendere un campanello d’allarme.

L’amiloidosi cardiaca può essere considerata un caso emblematico?

Esatto. Oggi sappiamo che una diagnosi precoce migliora la prognosi dell’amiloidosi cardiaca, indipendentemente dalla terapia specifica. Ecco perché la formazione è cruciale: solo medici consapevoli e aggiornati possono riconoscere i primi segni e avviare rapidamente il percorso diagnostico. Oltre al paziente, è fondamentale pensare anche alla famiglia: una quota non trascurabile (anche fino al 10% in determinate aree) di questi casi ha una forma ereditaria, e un semplice test genetico salivare può essere determinante per i parenti, che possono ottenere una diagnosi molto prima della comparsa dei sintomi, e quindi accedere a un trattamento precoce.

Come si traduce tutto questo in iniziative pratiche della SIC?

Su due livelli. Da un lato, nei congressi nazionali e regionali riserviamo spazi dedicati alle malattie rare cardiache. Il Congresso “SIC Triveneta 2026”, ad esempio, sarà interamente dedicato al cuore ipertrofico. Dall’altro, promuoviamo eventi locali multidisciplinari, che coinvolgono cardiologi, internisti, geriatri, genetisti e medici di medicina generale, per favorire un linguaggio comune e percorsi condivisi.

La collaborazione con altre società, in primis ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri) e SIA (Società Italiana Amiloidosi) ha portato alla nascita della Rete Italiana Amiloidosi Cardiaca (RIAC). Di cosa si tratta?

La partnership tra SIC e ANMCO (oltre che con la SIA) ha dato vita alla RIAC – Rete Italiana Amiloidosi Cardiaca, con l’obiettivo di migliorare i percorsi diagnostico-terapeutici e garantire una gestione condivisa dei pazienti affetti da amiloidosi con coinvolgimento cardiaco. Il primo lavoro importante è stato quello relativo alla definizione di un PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale) nazionale, pubblicato sul Giornale Italiano di Cardiologia, che potrà poi essere declinato a livello regionale: in Friuli Venezia Giulia, ad esempio, l’obiettivo è implementarlo entro il 2026.

Prof. Merlo, quali sono le prospettive future di questa rete?

La RIAC ha già prodotto risultati concreti: un documento condiviso sui percorsi diagnostici dell’amiloidosi cardiaca e una survey nazionale nel 2024 per valutarne l’impatto reale sul territorio. Ora dobbiamo lavorare per cercare di estendere questa sinergia a anche ad altre malattie rare di interesse cardiologico. E soprattutto, dobbiamo formare non solo gli specialisti e gli specializzandi in Cardiologia, ma anche internisti, geriatri e medici di medicina generale, fino agli stessi studenti di medicina, perché il primo passo verso la cura resta sempre il sospetto.

Lei ha più volte sottolineato la fragilità del paziente anziano. Cosa intende?

Il paziente anziano con comorbidità è doppiamente fragile, quindi va doppiamente tutelato. Non possiamo assolutamente permetterci di farci vincere dall’ageismo, ovvero dalla tendenza a trascurare il valore delle cure nell’età avanzata. Anche per questo stiamo cercando di diffondere l’uso nella pratica clinica l’uso di scale di comorbilità e fragilità per una valutazione più precisa, in modo da capire chi può davvero beneficiare delle terapie e chi invece ha bisogno di un approccio palliativo. Anche questo è un modo per garantire equità e appropriatezza delle cure.

In sintesi, qual è il messaggio che vuole lasciare?

Che la formazione continua è il filo rosso che unisce tutto: la diagnosi precoce, la collaborazione tra centri, l’attenzione al paziente fragile e la crescita delle reti, fino all’attività di ricerca. Solo una cardiologia che impara a interagire con altri specialisti, che si rinnova ogni giorno e che punta sull’implementazione della formazione in base all’evoluzione delle conoscenze può affrontare con successo le sfide delle malattie rare.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Ivana Barberini)