Associazioni regionali e formazione: risorse strategiche per la partecipazione ai processi regolatori

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Con AMaRE, un esempio di come le associazioni regionali possano tradurre competenze e prossimità in rappresentanza efficace nei tavoli regolatori

Nell’ambito del percorso promosso da RareLab con il progetto InPAGs, che mira a rafforzare il ruolo delle associazioni di pazienti nei processi regolatori attraverso criteri condivisi e strumenti operativi, emerge con forza il tema della valorizzazione delle competenze diffuse sul territorio. In questo contesto, abbiamo incontrato Angelo Lupi, Presidente AMaRE-Associazione Malattie Rare Ematologiche per approfondire il contributo delle associazioni regionali, spesso depositarie di conoscenze preziose e di una visione concreta dei bisogni locali. Il loro radicamento capillare rappresenta una risorsa strategica, soprattutto se accompagnato da percorsi formativi strutturati che ne consolidano la capacità di partecipare in modo qualificato e consapevole ai tavoli decisionali.

Presidente Lupi, secondo lei i criteri richiesti per l’iscrizione al RUAS sono adeguati? Rappresentano una giusta garanzia di qualità o rischiano di escludere realtà valide ma meno strutturate?

Il coinvolgimento dei pazienti nei processi decisionali, soprattutto in ambito regolatorio, è un elemento fondamentale per costruire politiche sanitarie realmente centrate sui bisogni delle persone. Le associazioni di pazienti rappresentano un punto di vista unico e insostituibile, che integra i dati clinici e scientifici con l’esperienza concreta di chi vive quotidianamente la malattia. Questo tipo di partecipazione non solo arricchisce il processo decisionale, ma può contribuire in modo significativo a migliorare l’accesso alle cure, la sostenibilità dei percorsi assistenziali e la qualità della vita. Affinché questo contributo sia efficace e valorizzato, è fondamentale che vi sia una preparazione adeguata da parte delle associazioni: conoscere la propria patologia è essenziale, ma saper dialogare con le istituzioni, comprendere i vincoli normativi ed economici, leggere i dati e utilizzare un linguaggio tecnico appropriato sono elementi altrettanto importanti. In questo quadro, la presenza di un comitato scientifico o di un supporto tecnico può fare la differenza, non solo per costruire proposte più solide, ma anche per rendere il paziente interlocutore credibile e informato. Il parametro dei dieci anni di attività, che dovrebbe essere utilizzato per selezionare le associazioni da coinvolgere in tavoli istituzionali, può avere un senso come indicatore di continuità e affidabilità, ma non dovrebbe mai diventare un criterio rigido o esclusivo. Soprattutto nel campo delle malattie rare e nelle ultra-rare, dove seppur in presenza di pochissimi pazienti sul territorio nazionale, ci sono realtà giovani che, pur avendo pochi anni di attività, hanno già costruito competenze solide, una rete di relazioni istituzionali e un forte radicamento nella comunità che rappresentano. In questi casi, più che l’anzianità anagrafica, dovrebbero contare la preparazione, la capacità di rappresentanza e la qualità del contributo offerto.

Il comma 295 della legge istitutiva del RUAS prevede che il rappresentante delle associazioni sia scelto tra quelle 'rilevanti e significative rispetto all’oggetto in discussione'. Dal testo non emerge una distinzione esplicita tra associazioni nazionali e regionali, ma questa formulazione potrebbe far pensare a una preferenza implicita per realtà di dimensione più ampia. Secondo lei, anche alla luce della sua esperienza associativa, questo potrebbe rappresentare un limite o un rischio di esclusione per realtà territoriali altrettanto competenti e radicate?

Le realtà regionali non sempre sono una diramazione delle associazioni nazionali, talvolta infatti rappresentano realtà autonome, radicate nei territori e portatrici di istanze specifiche che meritano piena considerazione. La loro presenza è fondamentale per garantire una rappresentanza capillare, aderente ai bisogni concreti delle comunità locali e in grado di cogliere differenze organizzative, epidemiologiche e assistenziali che variano sensibilmente da regione a regione. In questo quadro, il ruolo delle associazioni nazionali non deve essere quello di sostituirsi, ma di affiancarsi, promuovendo un coordinamento efficace, senza sovrapposizioni. Un rapporto fondato sul rispetto reciproco consente di affrontare le problematiche in modo più unitario, pur riconoscendo la specificità dei contesti locali. È importante, inoltre, considerare che molte associazioni regionali si trovano oggi in difficoltà, spesso per mancanza di risorse, di volontari o di ricambio generazionale. In questo senso, rafforzare le reti tra associazioni e investire in percorsi formativi condivisi può rappresentare una strategia utile a consolidare la partecipazione, promuovere una rappresentanza più solida e valorizzare il patrimonio di conoscenza e prossimità che queste realtà esprimono.

Che ruolo pensa debbano avere le associazioni nei processi regolatori come quelli di autorizzazione, valutazione e rimborso dei farmaci e dispositivi medici?

Il valore aggiunto di coinvolgere in audizione persone con una reale esperienza, non solo di malattia ma anche di partecipazione ai processi regolatori, risiede nella loro capacità di offrire un contributo informato, consapevole e coerente con il percorso della terapia oggetto di valutazione. In molti casi, questi pazienti hanno seguito da vicino lo sviluppo della terapia, partecipato a tavoli tecnici e contribuito, in modo strutturato, a portare la voce dei pazienti all’interno del dibattito scientifico e regolatorio. È essenziale che le agenzie regolatorie, come AIFA, si avvalgano del contributo di rappresentanti in grado di esprimere in modo competente il punto di vista del paziente, anche attraverso un linguaggio tecnico adeguato. Tuttavia, ciò non basta: ciò che davvero qualifica e rende insostituibile il ruolo del paziente è la capacità di raccontare, dall’interno, cosa significhi convivere con una patologia e cosa voglia dire qualità della vita per chi la vive ogni giorno. Perché il concetto di qualità della vita non è astratto né uniforme: può voler dire recuperare un’ora senza dolore, tornare a svolgere un’attività quotidiana in autonomia, riuscire a lavorare o semplicemente non dover dipendere costantemente da altri. Tutti aspetti che sfuggono a una valutazione meramente clinica, ma che sono centrali per una piena comprensione dell’impatto di una terapia.

Alla luce della sua esperienza, quanto ritiene importante che le associazioni di pazienti investano in percorsi di formazione e sviluppo di competenze in ambito di advocacy, anche per garantire un’interlocuzione efficace e consapevole con le istituzioni e sostenere in modo adeguato le istanze della propria comunità?

La formazione rappresenta oggi un elemento strategico per le associazioni di pazienti, non solo per una questione di crescita interna, ma per poter svolgere un ruolo pienamente attivo nei processi decisionali che riguardano la salute. In un contesto istituzionale che richiede competenze sempre più specialistiche – basti pensare alla valutazione dell’innovazione, all’accesso ai farmaci, ai processi di HTA o alle consultazioni regolatorie – è fondamentale che chi rappresenta i pazienti sia in grado di interfacciarsi in modo efficace con i diversi stakeholder del sistema. Acquisire competenze in ambito di advocacy significa comprendere come funziona il sistema salute, conoscere il linguaggio delle istituzioni, orientarsi tra i documenti regolatori, saper leggere dati, ma anche saper costruire e sostenere una posizione che sia fondata e argomentata. Non basta più solo la testimonianza, per quanto necessaria: serve una rappresentanza capace, preparata e consapevole, soprattutto quando si ha la responsabilità di portare istanze collettive. In questo senso, sviluppare percorsi formativi strutturati – anche all’interno delle stesse associazioni – rappresenta un investimento sul lungo periodo. È ciò che permette, ad esempio, di costruire un dialogo continuativo con le autorità regolatorie, contribuendo non solo in fase di ascolto, ma anche nella definizione stessa dei processi. E vale anche per le malattie rare, dove spesso il numero esiguo di pazienti rende ancora più importante avere interlocutori competenti che sappiano evidenziare criticità specifiche. In definitiva, la formazione non è solo uno strumento di empowerment individuale, ma una leva fondamentale per rendere la partecipazione dei pazienti effettiva, riconosciuta e utile al miglioramento del sistema.

Recapiti
info@osservatoriomalattierare.it (Roberta Venturi)