Workout Magazine - Studio Chiesa communication
Sostenibilità: Workout magazine incontra Micaela Lorenzi, CEO di Greenchemicals S.r.l.
Le equilibriste. Così le definisce il rapporto che Save the Children pubblica ogni anno – dal 2015 – cercando di «risvegliare le coscienze» come scrive Luisa Corazza (professoressa ordinaria di diritto del lavoro nell’Università degli Studi del Molise nonché Consulente del Presidente della Repubblica per le questioni di carattere sociale) nella prefazione dell’edizione 2025. Chi sono le equilibriste? Sono le madri lavoratrici, le penalizzate tra le penalizzate perché se è vero che le donne soffrono ancora di un pesante gender gap nel mondo del lavoro, le mamme che lavorano sono gravate anche dalla cosiddetta child penalty, che le inchioda a un perenne slalom tra mille ostacoli che vanno dall’assenza di servizi che le possano supportare nella vita quotidiana a tutta una serie di pregiudizi che rende loro difficile la permanenza nel mondo del lavoro. Luisa Corazza è lapidaria: «Combinare maternità e lavoro costituisce ancora una sfida».
I numeri? Tanti e tutti significativi. Ma innanzitutto una domanda è d’obbligo: come stiamo a bambini in Italia? Non bene. Secondo i dati dell’ISTAT nel 2024 i nuovi nati sono stati 370.000, in calo del 2,6% rispetto all’anno precedente. Questo significa che ogni 1000 abitanti ci sono 6,3 nati mentre nel 2024 erano uno in più. È un tasso di natalità da inverno demografico che certamente è causato dalla combinazione di più fattori, non ultime scelte culturali molto individuali, ma non nascondiamoci che a incidere pesantemente è anche la difficoltà tutta sulle spalle delle donne di conciliare famiglia e lavoro, la precarietà dei redditi, l’insicurezza del posto di lavoro. E la «prova del nove» è insita in altri numeri: per esempio, nel settore privato l’aumento salariale delle madri quindici anni dopo la nascita del primo figlio è del 57% inferiore a quello delle lavoratrici senza figli con caratteristiche simili – l’indagine è stata condotta da INPS tra il 1985 e il 2018 – e questo divario si manifesta immediatamente dopo la nascita e si mantiene inalterato nel tempo. Ma non è tutto, perché le madri, a quindici anni dopo la nascita, hanno tassi di uscita dal lavoro del 12% superiori alle donne senza figli e in generale è maggiore nelle Regioni italiane dove i servizi risultano più carenti. Un’ulteriore conferma di quanto sia difficile il lavoro per le madri viene dai provvedimenti di convalida dell’Ispettorato del Lavoro (cioè l’attestazione della genuinità delle risoluzioni consensuali del contratto di lavoro, obbligatoria per talune categorie come, appunto, le lavoratrici con figli): nel 2022 il 72,8% di tutte le convalide era riferito a donne ed erano dimissioni volontarie motivate per più della metà dalla difficoltà di conciliare figli e lavoro (e, attenzione, di quest’ultimo gruppo ben il 17,6% citava cause riguardanti l’organizzazione del lavoro stesso o scelte del datore di lavoro). Se poi parliamo dei tassi di occupazione per la fascia di età compresa tra i 25 e i 54 anni, nel 2024 si attestano al 68,9% nel caso delle donne senza figli e al 62,3% per le madri: tanto per fare un confronto, nello stesso anno la percentuale dei padri che lavorano, è del 91,5%. In altre parole, se sei donna, ma ancora di più se sei madre, la tua presenza nel mondo del lavoro si rarefà. Non in modo uguale per tutte: a un livello di istruzione superiore corrisponde un tasso di occupazione più alto, quindi sono le fasce socialmente più fragili, meno acculturate, a essere le più colpite.
Si potrebbe proseguire a lungo perché ogni numero del rapporto evidenzia una disparità desolante a cui le istituzioni dovrebbero sentirsi obbligate a dare una risposta. Vorrei solo citare ancora un dato proveniente da uno studio del 2025 di Confprofessioni e relativo alle donne che esercitano una libera professione: su un campione di 1300 casi solo il 37% delle donne ha dichiarato di non aver subito cambiamenti nella propria attività dopo la nascita di un figlio contro il 68% degli uomini, quindi la maggioranza aveva dovuto riorganizzare la propria vita lavorativa in funzione delle necessità famigliari. E ben quattro professioniste su cinque ritengono che la maternità possa compromettere il percorso lavorativo. Con questi dati ci possiamo lamentare del crollo delle nascite nel nostro Paese?
Mi sono dilungata, è vero, ma solo per dare un quadro, sia pure parziale, della vulnerabilità delle donne nel mondo del lavoro e per conferire senso e spessore alla decisione di molte di loro di rinunciare alla maternità o di posticiparla finché purtroppo non diventa troppo tardi: non è egoismo, è «semplicemente» difficile nelle condizioni attuali. E se pensate che ci siano categorie privilegiate, per esempio le imprenditrici di successo, che non abbiano dovuto confrontarsi con questi problemi per benefici «di casta» o per una concomitanza di eventi casuali e fortunati, beh, non è così o per lo meno non sempre. Lo testimonia la storia di Micaela Lorenzi, madre di quattro figli e fondatrice (nel 2010) nonché CEO di Greenchemicals Srl, azienda brianzola specializzata in autoestinguenti, cioè additivi per la plastica la cui funzione è di ritardare la fiamma. Ma della produzione di Greenchemicals parleremo dopo, adesso è il momento di dare spazio al racconto di Micaela.
«Sì, da bambina giocavo con il Piccolo Chimico. Mi sono sempre piaciute le scienze in generale, ma soprattutto erano i materiali a intrigarmi, mi affascinava mischiare le sostanze per vedere che cosa succedeva. All’inizio mi attirava il settore cosmetico perché mia madre faceva la parrucchiera, ma quando mi sono iscritta a Chimica Industriale all’Università di Milano e mi sono ritrovata a frequentare gli stessi laboratori, gli stessi ambienti dove Natta aveva inventato il polipropilene e ancora si avvertiva, potrei dire, la sua presenza nell’aria, in quel fermento di idee, di ipotesi, di studi che rendeva ogni giorno elettrizzante, beh, mi sono innamorata della plastica». L’università finisce, Micaela fa qualche esperienza di laboratorio, ma non si sente a proprio agio, ha bisogno di un ambiente più dinamico, è curiosa e il suo sguardo vuole spaziare al di là di provette, bilance e centrifughe. La decisione è presto presa e la prima assunzione è in ambito commerciale, come venditrice di additivi per la gomma, a cui segue, pochi anni dopo, l’importante opportunità di lavorare per una grossa multinazionale americana, la Great Lakes (oggi Lanxess), la cui produzione era focalizzata su additivi per plastica, tra i quali autoestinguenti, antiossidanti e assorbitori di UV: «All’inizio ero responsabile del mercato italiano, poi il mio raggio d’azione si è esteso a tutto il Sud-Est Europa. È stata un’esperienza formativa incredibile perché si può dire quello che si vuole sulle multinazionali americane, e io stessa le critico su alcuni aspetti, ma davvero lì ti insegnano a lavorare, soprattutto ti allenano a “mettere un’azienda sulla carta”, impari a fare budget, forecast, previsioni, in buona sostanza a pianificare, a capire dove eri, dove sei arrivato e dove riuscirai ad andare».
Ci passa sei anni, anni fecondi, istruttivi, in cui assimila cosa voglia dire fare impresa. Poi tutto cambia: «Come succede spesso nelle multinazionali, anche la mia è stata venduta, anzi è passata attraverso due vendite, e questo si è tradotto in un vero terremoto nel commerciale. È stata in quella fase che mi sono scontrata con il gender gap, in relazione soprattutto alla possibilità di carriera». Eh sì, perché Micaela capisce subito che lì non farà più un passo in avanti, non solo, ma che la sua vita professionale diventerà un arrancare penoso nonostante l’ottima performance nel suo lavoro. Per molti motivi diversi tra i quali però spicca un dato di fatto: è incinta della sua primogenita, «Con l’avanzare della gravidanza, ma ancora di più pensando al «dopo», non sarei stata in grado di svolgere un lavoro alle vendite che mi portava fuori casa anche venti giorni al mese. Da qui la proposta che mi hanno fatto di passare a un ruolo diverso, stanziale e non in Italia. A quel punto non ho potuto fare altro che licenziarmi».
Micaela è una combattente e senza deprimersi pensa a un piano B: darsi all’insegnamento, classica scelta femminile che tiene tutto insieme, famiglia e lavoro. Ci prova anche, ma proprio non ce la fa, è abituata a un train de vie più dinamico. Esiste però un piano, diciamo, C: la consulenza. «Ormai avevo maturato un bel po’ di esperienza nel campo degli additivi della plastica, avevo diversi contatti e una buona reputazione sicché ho abbracciato questa strada. Erano gli anni 2006-2007 e in quel periodo cominciavano ad arrivare in Europa additivi di produzione asiatica con prezzi estremamente attraenti ma anche con tanti «punti di domanda» legati, per esempio, alla loro effettiva qualità. Esisteva poi anche il problema della gestione di tutto l’iter di importazione con le varie norme a cui ottemperare, le aziende ancora non erano strutturate per svolgere quell’attività. E non solo quelle medie, ma anche le grandi, come Italcementi che mi aveva acceso proprio un contratto di consulenza sul controllo qualità di additivi provenienti dalla Cina e che a un certo punto mi ha proposto di occuparmi in prima persona dell’intero processo, dall’acquisto all’importazione così da consegnargli i prodotti già controllati, sdoganati e “pronti all’uso”».
Un salto quantico. Anche perché i produttori cinesi vogliono essere pagati in anticipo, ci vogliono soldi e bisogna trovarli. Micaela decide perciò di chiedere un finanziamento alla sua banca ipotecando la casa: «Nemmeno avevo finito di pagarla. Avevo, certo, un business plan, ma con due clienti soli, anche se di prima grandezza come Italcementi e Knauf. E avevo una bambina di tre mesi. Mi hanno concesso 500.000 euro e così sono partita con la mia startup». Startup che non ha neanche una sede: Micaela lavora da sola e da casa. La sua prima «compagna di strada» si affianca dopo qualche tempo, quando il business ha cominciato a ingranare: «Era ed è una mia amica d’infanzia, ragioniera, che aveva perso il lavoro quando aveva avuto una bambina. È Alessandra e tuttora lavora qui occupandosi dell’amministrazione e del personale». A loro si aggiunge presto una terza donna, Chiara, anche lei disoccupata con due figli, assunta attraverso una società interinale, che è responsabile di tutte le operations. Tre profili diversi accumunati dalla necessità di lavorare da casa, magari smettere alle quattro del pomeriggio per andare a prendere i bambini a scuola per poi riprendere dopo cena: «Abbiamo dimostrato che pur essendo donne, pur lavorando in smart working – termine e concetto che allora nemmeno si sapeva cosa volesse dire –, pur essendo mamme con tante necessità e obblighi ben precisi, pur non potendo iniziare alle sette della mattina, si riusciva comunque a fare impresa e a farla bene. Abbiamo sfatato tutti i pregiudizi che tanti problemi ci hanno procurato nei precedenti posti di lavoro, tipo “questo non lo puoi fare perché sei donna o perché sei madre, o perché non puoi lavorare dieci ore di fila”, non era vero niente. Si può fare tutto».
E il fatto paradossale è che da imprenditrice Micaela non ha mai incontrato alcuna difficoltà legata al genere né con i clienti né con i fornitori né con le banche, «a quel punto ti vedono tutti con occhi diversi» dice e aggiunge «Quando ti dicono che sei brava. No, brave sono le donne che da dipendenti riescono a fare carriera comunque, perché è un’impresa ciclopica. Quando sei indipendente “te la canti e te la suoni” da sola, ma quando sei invece una dipendente hai molti più ostacoli da superare ed equilibri da instaurare». Forse è anche per questo motivo che Micaela, quando deve assumere qualcuno, a parità di condizioni privilegia una donna, «perché un uomo se la cava sempre, una donna no». E forse è sempre per questo che in Greenchemicals ci sono donne uscite con le ossa a pezzi da cause legali per mobbing o licenziate dopo la maternità oppure ancora a casa da tanto tempo perché ormai scoraggiate e intimorite all’idea di rimettersi nuovamente in gioco. E in quei casi Micaela non guarda alla preparazione pregressa, ma alla loro attitudine al fare. Mi racconta dell’assunzione di una giovane donna in procinto di chiudere il suo negozio di abbigliamento perché non riusciva più a stare in piedi con questa attività: «Doris è arrivata così, avevo messo un annuncio di lavoro alla scuola dei miei figli e questa ragazza mi aveva telefonato, tra l’altro non per sé, ma per una sua amica. Parlandole mi era parsa molto spigliata, mi era proprio piaciuta sicché le ho chiesto cosa facesse nella vita e quando mi ha detto della sua situazione, le ho chiesto se le sarebbe interessato un colloquio. Era molto restia, mi diceva: “Ma che ne so io di chimica? Ho venduto capi d’abbigliamento fino a ieri». E invece avevo ragione: è perfetta per la posizione di sales manager e ha scoperto la sua vera vocazione. Certo adesso che l’azienda si è ingrandita (le donne attualmente sono una ventina, tutte in ufficio) è venuto un po’ meno lo spirito degli inizi quando ci sentivamo più sorelle che colleghe, andavamo insieme in vacanza con i figli, avevamo mantenuto la capacità di sognare nonostante dovessimo superare mille difficoltà». Oggi la realtà è più pragmatica, in azienda ci sono più regole, fermo restando che nessuna timbra il cartellino, a nessuna viene negato un permesso e le ferie sono un diritto assoluto nei modi e nei tempi.
A questo punto è arrivato il momento di spiegare cosa produce Greenchemicals e da dove nasca quel Green iniziale che colloca immediatamente l’azienda in un perimetro virtuoso e sostenibile: «Bisogna innanzitutto spiegare che gli autoestinguenti sono obbligatori per tutta una serie di applicazioni nel mondo della plastica che vanno dal settore domestico all’automotive, dai treni e dagli aerei ai settori elettronico ed elettrico, ma anche arredamento e costruzioni per rendere la plastica stessa più resistente al fuoco. Basti pensare che, tanto per citare un esempio, una casa in cui i materiali non contenessero questi additivi brucerebbe comp