Prof. Giuseppe Grandaliano: “La presenza di proteine nelle urine ci permette di intercettare precocemente la malattia e di monitorare la risposta ai nuovi trattamenti”
Ultra-rara, complessa e, fino a pochi mesi fa, orfana di terapie specifiche: la glomerulopatia da C3 (C3G) rappresenta una delle cause di danno renale più difficili da intercettare e da gestire. “Per anni, questa patologia glomerulare è stata del tutto priva di trattamenti mirati”, spiega il prof. Giuseppe Grandaliano, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Nefrologia presso il Policlinico Universitario Agostino Gemelli e docente ordinario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “Ancora oggi molte linee guida si limitano a fornire solo dei ‘practice points’, senza sbilanciarsi in vere e proprie indicazioni di trattamento”.
Negli ultimi mesi, tuttavia, si è aperta una nuova fase terapeutica, grazie anche al fatto che il Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP) dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali) ha raccomandato l’approvazione di iptacopan, primo inibitore orale della via alternativa del complemento indicato per pazienti adulti affetti da C3G. Un risultato che rappresenta un primo passo concreto verso una gestione più mirata e personalizzata di questa malattia che, in assenza di cure adeguate, tende a progredire verso l’insufficienza renale cronica terminale entro pochi anni dalla diagnosi.
C3G: UNA PATOLOGIA DI DIFFICILE DIAGNOSI
Nell’ultimo periodo, grazie ai progressi nella comprensione dei meccanismi patogenetici e all’avvio dei primi studi clinici dedicati, la glomerulopatia da C3 ha iniziato ad attirare l’attenzione crescente della comunità dei nefrologi. Causata da una disregolazione congenita o acquisita della via alternativa del complemento, la C3G determina la deposizione di frammenti di proteina C3 a livello dei glomeruli, le unità filtranti del rene. Ne consegue un danno infiammatorio e strutturale con progressiva perdita della funzionalità renale, evidenziata dalla presenza di proteine – in particolare albumina – nelle urine.
Dal punto di vista istologico, la C3G si distingue per il marcato accumulo di C3 in rapporto alla scarsa o assente presenza di depositi di immunoglobuline (IgG, IgM), criterio fondamentale per la diagnosi differenziale. “Per questo, la malattia richiede necessariamente la biopsia renale per essere identificata con sicurezza”, sottolinea il prof. Grandaliano. “Il paziente deve arrivare al nefrologo e, soprattutto, a un patologo esperto: passaggi tutt’altro che scontati, che spiegano in parte la sottodiagnosi di questa condizione”.
La C3G, infatti, è tuttora considerata una patologia ultra-rara, con una prevalenza stimata di pochi casi per milione di abitanti (fonte: Orphanet), ma in realtà potrebbe essere più diffusa di quanto indichino i dati attuali. La diagnosi, infatti, richiede un percorso complesso, e spesso trascorrono anni prima che il paziente arrivi all’identificazione corretta della malattia.
“In molti casi, la C3G viene riconosciuta quando la funzione renale è ormai già gravemente compromessa”, racconta il professor Grandaliano “A quel punto la biopsia perde gran parte del suo valore, perché il tessuto renale è ormai sostituito quasi interamente da lesioni cicatriziali (fibrosi) che non consentono più di distinguere la causa originaria del danno”.
Da qui l’importanza di intercettare precocemente la malattia. “Oggi più che mai, visto l’arrivo di terapie sempre più specifiche, è fondamentale aumentare la consapevolezza dell’esistenza di questa malattia, anche tra il personale medico non specializzato, e mettere a punto tecniche di screening che permettano di evidenziare le alterazioni nel funzionamento renale già in fase presintomatica”, sottolinea il nefrologo. In questo contesto, l’albuminuria rappresenta un biomarcatore chiave, semplice e accessibile, che può essere utilizzato non solo per lo screening e la diagnosi precoce, ma anche per monitorare l’andamento della patologia e valutare l’efficacia delle terapie nel tempo.
L’ALBUMINURIA COME PRINCIPALE INDICATORE DI MALATTIA
“Un danno glomerulare comporta la perdita di integrità del filtro renale, rendendolo più permeabile alle proteine plasmatiche”, spiega il prof. Grandaliano. “L’albumina, la più abbondante tra queste proteine, arriva così fino alla vescica e diventa una spia diretta delle lesione strutturali e funzionali del rene causate dal sistema del complemento”. L’albuminuria, ossia la perdita di albumina nelle urine, può essere accertata con un semplice test e permette di individuare il malfunzionamento renale anche quando i sintomi sono ancora aspecifici o del tutto assenti. Infatti, le malattie renali, e la C3G in particolare, rimangono spesso silenti finché il danno d’organo è ormai conclamato.
L’albuminuria è il segno precoce del danno glomerulare e rappresenta il miglior test di screening disponibile per le affezioni del rene. “Dobbiamo imparare a fare screening. È un punto fondamentale, perché la diagnosi di queste malattie si fa solo se le andiamo a cercare”, sottolinea il prof. Grandaliano. “In Italia, è in discussione in Parlamento una proposta di legge che punta a coinvolgere i medici di base nello screening della malattia renale cronica, misurando - con un semplice esame delle urine - sia la creatinina che l’albumina, indicatori precoci di danno renale”, spiega il nefrologo. Il problema, però, è che la fascia di popolazione target prevista è composta perlopiù da over sessantenni, con problemi di ipertensione o diabete. “Sicuramente questa strategia sarà molto utile per intercettare determinate patologie, ma escludendo i giovani adulti, che sono proprio la popolazione più colpita dalla C3G, difficilmente aiuterà nell’identificazione precoce di questa malattia”.
Spesso, infatti, quando la diagnosi di C3G arriva in tempo si tratta solo di una casualità: l’albuminuria viene scoperta nel corso di controlli sportivi o esami di routine, e proprio questi pazienti individuati precocemente sono quelli che, in genere, hanno una prognosi più favorevole. “Questi ‘casi fortuiti’ ci ricordano quanto sarebbe utile pensare a programmi di screening nelle scuole, nelle università o nei luoghi di lavoro”, dichiara il prof. Grandaliano. “Un banale esame delle urine, assolutamente indolore e non invasivo, potrebbe permetterci di intercettare la C3G prima che sia troppo tardi”.
Oltre al suo valore diagnostico, l’albuminuria è ormai riconosciuta come parametro di valutazione dell’efficacia terapeutica nella glomerulopatia da C3. “Le autorità regolatorie, come FDA, EMA e AIFA - osserva il prof. Grandaliano - sono tutte concordi nel riconoscere la proteinuria e, in particolare l’albuminuria, come endpoint negli studi clinici su nuove terapie. Se un farmaco riduce significativamente la perdita di albumina nel breve periodo, sappiamo che nel lungo termine avrà un effetto positivo sulla progressione della malattia e un effetto protettivo sulla funzione renale”.
Le nuove terapie dirette contro il complemento sembrano muoversi in questa direzione. “I primi risultati - conferma il professore - mostrano una significativa riduzione dell’albuminuria e una stabilizzazione della funzione renale”. Si tratta di farmaci sempre più mirati, capaci di agire selettivamente sulla cascata del complemento, bloccandola nelle sue fasi iniziali e riducendo così il danno glomerulare. Oltre a iptacopan, sono attualmente in fase avanzata di sviluppo diverse molecole appartenenti a questa classe terapeutica, tra cui pegcetacoplan, e la loro prossima disponibilità in clinica potrebbe davvero cambiare la storia naturale della C3G, aprendo una prospettiva terapeutica che fino a poco tempo fa era impensabile.
“Si stanno delineando scenari inediti per la gestione della C3G, ma la sorveglianza clinica continua a giocare un ruolo decisivo”, ribadisce il prof. Grandaliano. Anche nel contesto del trapianto di rene, l’albuminuria si conferma un parametro indispensabile. “In primo luogo - spiega il nefrologo - è importante ricordare che un monitoraggio adeguato delle proteine plasmatiche nelle urine consente una gestione più accurata del decorso della malattia e può contribuire, in molti casi, a ritardare o evitare la dialisi e il trapianto. Quand’anche ciò non fosse possibile, ad esempio nei pazienti che giungono da noi ormai in fase avanzata, l’albuminuria resta un parametro cruciale anche dopo il trapianto”.
“Tendiamo spesso a considerare la perdita del rene trapiantato come conseguenza del rigetto - precisa il professore - ma in realtà una parte significativa dei fallimenti è dovuta alla recidiva della malattia renale di base, e la C3G, purtroppo, è tra le patologie che si ripresentano più frequentemente”. Monitorare l’albuminuria nei pazienti trapiantati è quindi cruciale: “Un repentino aumento dell’escrezione urinaria di albumina può essere il primo segnale di recidiva. Inoltre, nei casi in cui il paziente sia arrivato al trapianto senza una diagnosi chiara - una situazione tutt’altro che rara - il riscontro di albuminuria può essere la chiave per procedere con una biopsia e individuare per la prima volta la C3G sul nuovo rene”.
IL FUTURO: LA RICERCA PUNTA SU BIOMARCATORI PIÙ SENSIBILI
Nonostante il ruolo centrale dell’albuminuria, la ricerca di nuovi biomarcatori per la C3G non si ferma. “In questa patologia la perdita di albumina ci segnala l’attivazione anomala del sistema del complemento, ma solo in modo indiretto”, osserva il prof. Grandaliano. “L’obiettivo, oggi, è individuare marcatori più sensibili e specifici, capaci di riflettere direttamente l’attività della cascata del complemento, così da intercettare il processo patologico alla base della malattia prima che provochi danni strutturali al rene”.
I livelli plasmatici della proteina C3 rappresentano un indicatore troppo tardivo: sono specifici ma poco sensibili, perché si abbassano solo quando l’attivazione del complemento è già molto intensa. Identificare marcatori più precoci, in grado di rilevare l’attività del sistema del complemento in una fase ancora subclinica, permetterebbe di intervenire prima che il danno renale diventi irreversibile. “Ci sono diversi candidati promettenti - conclude Grandaliano - ma servono ancora dati solidi. In questo campo la ricerca è vivace, tuttavia occorre mantenere prudenza: solo così si possono ottenere risultati concreti e duraturi”.