Qual è uno dei rischi più grandi nel panorama della comunicazione? Probabilmente quello di semplificare il rapporto con il pubblico riducendolo a metriche di engagement o a dinamiche puramente algoritmiche.
E lo vediamo spesso anche in agenzia, all’interno di conversazioni anche con colleghi, partner, clienti.
In realtà, se ci pensiamo con attenzione, però, ciò che emerge veramente dall’osservazione dei comportamenti online è una forma di relazione che, pur priva di reciprocità reale, influenza percezioni, aspettative, giudizi e (e fiducia – un elemento indispensabile per il processo di crescita di un brand).
Questa relazione si colloca nella dimensione parasociale – un terreno che è stato ampiamente descritto da Donald Horton e Richard Wohl già nel 1956 – che oggi assume un ruolo determinante nella costruzione della leadership comunicativa di brand e founder.
E, parallelamente, a rafforzare o indebolire questa percezione interviene anche la social proof, concetto sempre al centro di queste dinamiche e sistematizzato da Robert Cialdini: una sorta di “forma di validazione” osservabile che orienta il giudizio quando le informazioni disponibili sono molte, ma i criteri di fiducia restano comunque incerti.
I due meccanismi, pur distinti, tendono a intrecciarsi, creando un sistema complesso in cui relazione percepita e riconoscimento esterno concorrono alla reputazione.
Costanza, prevedibilità e riduzione della percezione di distanza
Secondo Horton e Wohl (1956), le relazioni parasociali nascono nel momento in cui il pubblico sviluppa la sensazione di “conoscere” una figura mediatica attraverso un’esposizione ripetuta.
E oggi, questa esposizione è davvero continua: contenuti quotidiani, format diretti, newsletter, podcast, creator e contenuti condivisi costantemente in tempo reale.
Ciò che genera familiarità, però, non è tanto la quantità dei contenuti, quanto la costanza del linguaggio, la stabilità del punto di vista e la coerenza con cui il brand affronta temi, problemi e offre soluzioni.
Quando queste costanti si consolidano, il pubblico elabora una sorta di modello mentale dell’interlocutore, riuscendo ad anticipare reazioni, riconoscere il tono, individuare le priorità.
Di fatto, senza che vi sia un’interazione diretta, la percezione della distanza si riduce e il brand diventa quasi “prevedibile” nel suo modo di pensare e condividere informazioni. Questa prevedibilità facilita la costruzione di un legame di fiducia, perché riduce l’ambiguità.
La social proof: un ecosistema di conferme che getta le basi della credibilità
Il contributo di Cialdini ha chiarito come, nei contesti di incertezza, gli individui tendano ad affidarsi alle scelte e alle valutazioni altrui per formare la propria opinione.
Nel digitale, questa dinamica si amplifica: interviste, menzioni, recensioni, casi studio condivisi, collaborazioni con aziende riconosciute, citazioni nei media, recensioni di creator, inviti agli eventi di settore.
Ogni elemento diventa un tassello di un sistema di legittimazione distribuito che:
- riduce il margine di rischio percepito dalle persone
- offre indicatori di qualità difficili da ottenere attraverso l’autodichiarazione
- crea continuità tra reputazione personale e credibilità professionale.
Non si tratta di un semplice effetto generato dalla popolarità. La social proof funziona molto bene perché sostituisce le incertezze con un insieme di segnali verificabili che rendono il tutto più attendibile.
Quando familiarità percepita e riconoscimento esterno si rafforzano a vicenda
La relazione parasociale crea vicinanza e insieme alla social proof si costruisce maggiore solidità. Quando entrambe le dinamiche agiscono simultaneamente, la reputazione acquisisce un’intensità particolare: chi osserva percepisce prossimità emotiva e, allo stesso tempo, legittimazione sociale.
Un o una founder che comunica con regolarità e appare in contesti credibili – interviste, keynote speech, articoli di settore – viene letto/a come figura competente e affidabile nel tempo. Lo stesso avviene per i brand che costruiscono una presenza pubblica caratterizzata da coerenza narrativa e tessuto relazionale verificabile.
In questa sovrapposizione si capisce l’importanza del creare strategie di comunicazione che siano durature nel tempo e non estemporanee, per costruire con maggiore profondità e dare tempo alle persone di affidarsi a tale profondità.
Implicazioni operative per PR e comunicazione strategica
Per chi lavora nelle PR, l’interazione tra questi elementi offre una prospettiva precisa da cui osservare e organizzare l’intero lavoro di comunicazione: la reputazione prende forma molto prima della diffusione di una notizia e continua a evolversi ben oltre il ciclo di copertura mediatica.
Ciò richiede:
- un’identità linguistica stabile, capace di produrre familiarità;
- una presenza mediatica coerente, in cui ogni uscita aggiunge un livello di legittimazione;
- una progettazione narrativa di lungo periodo, in cui anche i dettagli – le parole scelte, il ritmo delle uscite, le occasioni pubbliche – contribuiscono alla percezione complessiva.
Una strategia di PR quindi si estende ben oltre la costruzione dei contenuti, coinvolgendo tutti gli elementi che compongono l’architettura della visibilità: contesti scelti, portavoce preparati, materiali curati e conversazioni pubbliche presidiate.
La fiducia come “costruzione multilivello”
La crescita delle relazioni parasociali e il peso crescente della social proof rivelano un cambiamento più profondo del modo in cui le persone costruiscono fiducia online.
Se fino a pochi anni fa la credibilità dipendeva soprattutto dalla solidità istituzionale, oggi si struttura attraverso forme di osservazione continua: il pubblico valuta quello che un brand dichiara e anche il modo in cui si muove e “risiede” negli spazi digitali, le relazioni che intrattiene, la costanza con cui si presenta.
Questo scenario apre interrogativi nuovi per la comunicazione.
Che cosa accade quando la familiarità percepita supera la conoscenza reale? Fino a che punto la fiducia può basarsi su una combinazione di vicinanza psicologica e conferme esterne? E, soprattutto, come cambierà il rapporto tra brand, founder e pubblico quando anche le relazioni parasociali diventeranno più consapevoli e forse più “professionali” da entrambe le parti?
L’evoluzione delle piattaforme e il moltiplicarsi dei formati renderanno queste dinamiche ancora più complesse. La vera (e non banale) sfida, per chi lavora nella comunicazione, sarà capire come mantenere integrità e profondità in un ambiente che tende a trasformare tutto in un flusso continuo.
La fiducia – individuale, collettiva, aziendale – potrebbe diventare sempre meno un dato acquisito e sempre più un esercizio di responsabilità quotidiana, sostenuto da scelte coerenti e da una presenza pubblica che resista alla tentazione della semplificazione.
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