L’arte non è moneta - Comin and Partners

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«Anche oggi, che la valuta ha perso buona parte della sua componente fisica e si è progressivamente trasformata in un flusso di capitali e di operazioni finanziarie che viaggiano da un server all’ altro, l’arte non ha smesso di guardare al denaro con l’interesse di un bambino incollato a un negozio di caramelle». Così comincia la puntata dedicata ad “Arte e soldi” di ArteFatti, il vero e il falso dell’Arte, il podcast di Costantino della Gherardesca e Francesco Bonami.

Un tempo l’arte abitava i muri: affrescava ville e palazzi, ornava chiese e perfino tombe. Era pensata per restare, indissolubilmente legata a un luogo e al suo destino. Con l’avvento della borghesia e di nuovi stili di vita, però, cambiano le esigenze: la mobilità diventa un valore, lo spazio domestico un teatro privato. È allora che l’arte si fa quadro, si incornicia, si stacca dal muro per seguire i suoi proprietari nei loro spostamenti e raccontarne passioni e ambizioni.

Specchio fedele della società, anche l’arte si muove, si trasforma, si adatta. Oggi, a essere incorniciato è il gesto. Spesso, il nulla, quando è firmato, vale più della materia. Un’idea – o una provocazione – può superare il prezzo di una villa, purché il nome sulla parete garantisca l’investimento. È in questo scenario, dove l’autenticità è sostituita dall’autorialità, che il sistema dell’arte contemporanea si è strutturato come un ecosistema finanziario e mediatico, in cui l’artista coincide con il proprio brand.

Francesco Bonami questo mondo lo conosce e lo racconta bene. Critico e curatore tra i più influenti a livello internazionale, ha diretto la Biennale di Venezia del 2003 e ha contribuito a plasmare la fortuna pubblica e museale di artisti come Jeff Koons, Maurizio Cattelan, Rudolf Stingel, Takashi Murakami, Damien Hirst. Il suo sguardo tagliente e disilluso sa raccontare l’ambiguità del mercato con ironia: un’arena in cui l’arte, da oracolo spirituale, è diventata derivato di se stessa, scambiata nei salotti delle fiere come un NFT con l’anima.

Proprio quest’ultimo, Damien Hirst, ha da poco annunciato un’iniziativa che sembra pensata per il Nasdaq: la pubblicazione di 200 “libretti di istruzioni” affinché le sue opere possano continuare a essere realizzate e vendute anche dopo la sua morte. Non falsi, non copie: originali postumi approvati dall’artista stesso. Come un marchio di moda che mantiene la produzione in eterno, mentre il corpo creativo svanisce.

Oggi l’artista è un architetto di sistemi. Le sue opere sono token visivi in una borsa globalizzata della cultura. E il curatore? È spesso il regista silenzioso di questo teatro. Francesco Bonami lo è stato – e lo è – anche per una parte di quell’arte che parla il linguaggio del capitale. Con lui abbiamo provato a mettere a fuoco che fine ha fatto il valore, quando tutto si trasforma in prezzo. Perché nel mondo dell’arte contemporanea, forse più che in ogni altro campo, le domande sul denaro coincidono con quelle sull’identità. E ciò che rimane , alla fine, è la verità – o almeno l’illusione – che l’arte riesca ancora a dirci qualcosa che il denaro non sa.

Quali sono le differenze tra il mercato dell’arte italiano e quello delle grandi piazze internazionali?
Il mercato dell’arte italiana ha avuto un boom nel dopoguerra grazie a un’economia nuova della middle class spesso basata su scambi in contante. Un mercato anche in termini di scala fisica borghese, ovvero architetture e spazi borghesi non museali; negli Stati Uniti, ma anche in Germania o Svizzera, la scala è sempre stata più ambiziosa. In Italia il salotto diventava galleria mentre negli altri Paesi menzionati era la galleria a diventare salotto.

L’arte contemporanea si sta trasformando in una moneta alternativa?
Questo valeva fino a un paio d’anni fa, ed è il più grosso problema del mercato oggi. Si è voluto trattare le opere d’arte come azioni di Wall Street e il risultato è che le opere d’arte sono diventate oggetto di speculazione con le stesse regole, ovvero con valori che salgono follemente e velocemente e che altrettanto follemente e velocemente crollano.
Ma il collezionista speculatore quando il mercato crolla si comporta solo da collezionista…
Se ha pagato 100 non ci sta a vendere a 60… Quando qualcuno mi chiede cosa comprare e poi aggiunge “non voglio però buttare via soldi” capisco subito che non è un collezionista. Le grandi collezioni sono state fatte buttando via i soldi. E così facendo c’è chi ha fatto anche molti soldi. No, l’arte non è né un’azione, né una valuta.

Alcuni artisti costruiscono la propria carriera seguendo dinamiche da start-up: massima visibilità, serialità, marketing personale. In questo contesto, esiste ancora l’“aura” dell’opera?
Esiste sempre meno, con la conseguenza che l’arte diventa sempre meno “sexy”. Si è persa l’idea fondamentale che ha sostenuto il mercato dell’arte: la scarsità.

Se oggi a qualcuno piace un artista che però costa troppo se ha pazienza e un po’ di fortuna può comprarlo ad un’asta ad un terzo del valore. Oggi conta più l’opera o la storia che le si costruisce intorno?
Un po’ è vero, un po’ è una bufala, ma alla fine è importante che l’artista sia bravo e voglia dire qualcosa al mondo e non soltanto alla cerchia ristretta dei suoi amici. Il collezionista sembra sempre più un gestore di portafoglio.

Esistono ancora collezionisti irrazionali, capaci di scegliere per istinto, per amore o per disobbedienza?
Pochissimi. Tutti, in tutti i campi, hanno paura di fare la figura dei coglioni e siccome i coglioni sono la maggioranza, fra un buco di Fontana e un Banksy la gente compra Banksy, almeno fa bella figura davanti a tanti coglioni invece di fare la figura del coglione davanti agli stessi coglioni.

L’arte è ancora capace di esprimere dissenso o è diventata parte dell’establishment economico e culturale?
Vale la risposta sopra.

Il moltiplicarsi di fiere e appuntamenti gonfia una bolla fondata più sull’hype che sulla qualità?
Esatto, l’entertainment ha sostituito la passione e la curiosità essenziali per collezionare.

C’è stato un momento in cui l’arte è riuscita a sottrarsi alle logiche di mercato e a vivere una condizione svincolata dal valore economico?
Credo agli inizi degli anni ‘90, quando il mercato era in crisi nera e gli artisti e i galleristi non avevano l’ansia di mostrare cose da vendere, tanto nessuno comprava nulla. Può darsi che succeda di nuovo, ma il mercato e tutto il sistema dell’arte cadrebbero da molto più in alto e tanta gente si farebbe molto male.

Francesco Bonami è un curatore d’arte contemporanea di fama internazionale, ha iniziato la carriera a New York negli anni Ottanta. È stato direttore artistico della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (19952017) e della 50ª Biennale di Venezia (2003), oltre a curare importanti rassegne in tutto il mondo. È stato senior curator presso il Museum of Contemporary Art di Chicago, dove ha organizzato la prima retrospettiva di Je! Koons e ha collaborato alla realizzazione delle mostre di alcuni dei più famosi artisti della scena contemporanea, tra cui Damien Hirst, Maurizio Cattelan, Rudolf Stingel e Takashi Murakami. Scrittore e podcaster, è autore di numerosi saggi sull’arte. Oggi dirige il centro d’arte JNBY a Huangzhou progettato da Renzo Piano. Collabora con Il Foglio e Vanity Fair, e nel 2025 ha pubblicato Artista Fallito negli Stati Uniti.

Immagine: ©Art Basel

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