Patagonia e il potere del branding

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La prima volta che pensi a Patagonia non è per le giacche o le tute da montagna. È per quello che ti fa pensare. Per la sensazione che un’azienda, un marchio possa rappresentare qualcosa di più di un semplice logo. Io ci penso quando mi faccio domande scomode come: può un brand avere una coscienza?

Nel 2011 Patagonia lanciò una campagna con un messaggio quasi scandaloso: Don’t buy this jacket.” Non era provocazione. Era verità. Voleva vendere consapevolezza. Un invito a fermarsi, a riflettere, a consumare meno (e meglio). Ed è questo che ha reso Patagonia più desiderabile che mai.

Un’azienda nata dalla ribellione

Yvon Chouinard voleva arrampicare, esplorare, vivere la natura senza rovinarla. Patagonia è nata da quella ribellione. Non contro il capitalismo, ma contro la sua deriva più banale e predatoria. La sua filosofia – se vogliamo – è molto semplice: fare profitto senza distruggere ciò che permette di farlo. Sembra ovvio, eppure quasi nessuno lo fa. Ecco perché Patagonia non è un’azienda normale. Non è solo marketing, non è solo prodotto: è una cultura. E questo per me è fare vero branding.

Il gesto più radicale: dare la proprietà alla Terra

Nel 2022, Chouinard fa qualcosa di davvero unico: dona l’azienda alla Terra. Letteralmente, dopo averlo fatto annuncia: “The Earth is now our only shareholder.”

Cosa significa davvero? Il 2% delle azioni con diritto di voto va a un trust – la Patagonia Purpose Trust – che garantisce che la missione e i valori restino intatti. Il restante 98%, senza diritto di voto, va a una non-profit [la Holdfast Collective] che userà i dividendi per proteggere l’ambiente. Nessuna vendita, nessun beneficio personale. Il profitto diventa strumento, non obiettivo. Il mercato non è più padrone. La Terra sì, almeno simbolicamente.

Eppure, la domanda rimane: fino a che punto questo modello è sostenibile? Può un brand continuare a innovare e crescere senza investitori esterni? Cosa succede se emergono conflitti tra valori e necessità di mercato? La coerenza assoluta è affascinante, ma è anche un vincolo.

Patagonia non vuole clienti, vuole compagni di viaggio

Non comprare Patagonia per sentirti migliore. Non comprare Patagonia per status. In un mercato dove tutti urlano “compra di più”, Patagonia sussurra: “compra solo se serve”. E questo è il suo potere: ti costringe a pensare. Ovviamente c’è un prezzo da pagare perché essere così radicali ha un costo: rinunce economiche, margini più bassi, opportunità mancate.

Ma ciò che Patagonia guadagna in fiducia non ha prezzo, creando una comunità che non è fatta solo di clienti, ma di persone che condividono valori, che leggono dietro la giacca, che percepiscono un’idea. That’s branding!

Ma siamo tutti consapevoli che nulla è perfetto. Questa strategia è un atto di equilibrio fragile: un passo falso potrebbe trasformare la credibilità in rischio reputazionale. Mettere la Terra al centro è un gesto potente, ma anche vulnerabile. Il mercato non perdona ingenuità, soprattutto se “si è preso la briga” di fermarsi a pensare.

Lezioni che vanno oltre Patagonia

Ci mostra cosa può fare un brand quando smette di inseguire solo il profitto e sceglie davvero di essere brand, di posizionarsi nella mente e nel cuore delle persone. Più in generale ci invita a riflettere sul ruolo dei brand nella cultura. Forse è l’ora di smettere di vendere “solo prodotti”, ma è necessario “vendere senso”. E forse, è questo che ci mette più a disagio. Perché in un mondo che misura tutto in numeri, Patagonia misura in coerenza, in valore culturale, in impatto.

Patagonia ci sfida. Ci ricorda che il branding non è solo vendita: è cultura, identità, visione. E che, a volte, le scelte più radicali sono quelle che cambiano tutto. Personalmente in un mondo dominato – e rovinato – dal fast fashion, sapere che un’alternativa possibile esiste rende il cuore un filo, giusto un filo, più leggero, no?

Giorgia Marini

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