Riforma degli Ordini, un rischio per l’autonomia professionale? - Ordine dei Giornalisti

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di Riccardo Sorrentino

Un altro rischio per l’autonomia professionale. Un’altra occasione perduta. La legge delega sulla riforma delle professioni degli ordinamenti professionali, presentata dal Governo al Senato, va nella direzione sbagliata. Dietro noiose questioni di status giuridico, e di rapporti tra enti, si nascondono regole insidiose che sono in grado di ridimensionare l’autonomia degli Ordini che tutelano i loro iscritti e, per questa strada, i professionisti stessi.

Gli Ordini, che già sono stati definiti degli enti-Frankenstein per la loro natura ambigua ne escono depotenziati. Non aver preso in considerazione, a differenza di quanto è avvenuto per la professione medica e quella forense, le peculiarità del giornalismo rende inoltre quelle norme particolarmente rischiose per il nostro mondo.

“Cosa fa l’Ordine?”

Innanzitutto manca la cosa più importante. “Cosa fa l’Ordine?” è la domanda che più spesso viene posta, soprattutto dai giornalisti, soprattutto sulle questioni deontologiche. Giustamente: mai come in questo periodo la nostra reputazione, e quindi la fiducia del pubblico verso il nostro lavoro, è un bene di cui prendersi cura. L’Ordine in realtà fa molto, ma non può raccontarlo. Un intreccio di regole diverse e in parte contrastanti, a cominciare da quelle sulla privacy, ci impedisce di raccontare – se non in modo astratto, attraverso le massime, con il rischio concreto di creare grandi equivoci – le decisioni prese dai Consigli di disciplina territoriali, che lavorano a pieno ritmo. Viene meno la funzione principale dell’Ordine, quella di rendere nuovamente responsabile il singolo – con tutta la doverosa attenzione per la sua dignità personale e professionale – ed evitare che il suo comportamento metta in cattiva luce l’intera categoria.
Diventa così impossibile la funzione che ne deriva immediatamente, e che è forse più importante, quella di segnalare ai colleghi, in concreto e non in astratto, quali comportamenti sono deontologicamente scorretti. I corsi sulla deontologia diventano puramente teorici e quindi inefficaci; resta impossibile discutere la sostanza delle questioni e come evitare il rischio più evidente dei codici etici, l’ipocrisia.
Il lavoro da fare sulla deontologia è tanto. Al lavoro dei consigli di disciplina è vietata oggi la trasparenza (così come non lo è – ma questo è un discorso che esula dalla disciplina della legge delega – l’attività di elaborazione dei Codici di deontologia, che dovrebbero essere una forma di autonomia condivisa). Le sanzioni disciplinari sono pesanti, hanno ricadute anche civilistiche – la sospensione e la radiazione – e la soluzione trovata per il nostro Ordine per garantire il diritto di difesa dei giornalisti, il ricorso in primo e secondo grado e poi in Cassazione, porta con quasi certezza alla prescrizione di qualunque decisione.
Siamo poi sicuri – e anche questo è un tema su cui occorrerebbe discutere, e molto – che in una professione naturalmente pubblica (nel senso di trasparente) come la nostra sia davvero risolutivo un approccio del tipo “sorvegliare e punire”? La pubblicità delle decisioni e la moral suasion dell’intera categoria non sarebbero più incisive? Una “censura” del press council australiano ha conquistato in almeno un caso la home page del Guardian (oltre che quella della testata nazionale): non è più efficace?

Molti altri aspetti che riguardano la professione giornalistica non sono trattati dalla legge delega perché riguarda quasi tutti gli Ordini nel loro complesso (solo avvocati e medici hanno disegni di legge specifici). Val la pena ricordare, però, che l’altro provvedimento riguardante il nostro Ordine in discussione in Parlamento, proposto da Fratelli d’Italia, si propone, in chiave burocratica, concentrandosi sostanzialmente sugli equilibri di potere, di aumentare la presenza dei pubblicisti, a sfavore dei professionisti, nei Consigli regionali e nazionale dell’Ordine. Il vero nodo viene però ignorato: non appare nessuna riflessione su come sia cambiata la nostra professione e sua come vada di conseguenza modificata la separazione delle due categorie e le relative modalità di accesso.

Assicurazioni? No: leggi anti-Slapp

Molte delle norme previste dalla legge delega vanno in una direzione precisa: la riduzione dell’autonomia, laddove la strada è quella dell’indipendenza, evidentemente associata a tutta le responsabilità che questa indipendenza comporta.

Il primo aspetto critico riguarda le assicurazioni obbligatorie, tema solo apparentemente tecnico. I decreti legislativi dovranno “stabilire l’obbligo in capo ai professionisti di stipulare una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione e prevedere che i Consigli Nazionali e le Casse di Previdenza privatizzate possano stipulare convenzioni e polizze collettive a favore dei propri iscritti”.
Il lavoro dei giornalisti non è tecnicamente assicurabile, se non in misura minima. I profili di rischio del redattore di un giornale generalista, o specializzato e quello dell’opinionista di una testata politicamente molto impegnata sono profondamente diversi. L’esperienza attuale già mostra massimali molto bassi e regole molto stringenti – in alcuni casi i risarcimenti avvengono solo in caso di vittoria giudiziale – o costi troppo elevati. I tanti giornalisti meno ricchi potrebbero essere chiamati a pagare premi resi sempre più alti dalla necessità di coprire i rischi dei colleghi più famosi e più spregiudicati, che le attuali norme deontologiche non riescono a “contenere”.
L’obbligo di assicurarsi non è praticabile, inoltre, se non si risolvono alla radice i problemi generati dalle Slapp, le citazioni temerarie, e in ogni caso dai risarcimenti danni che vadano al di là delle reali capacità finanziarie dei giornalisti, vietati del resto dalla giurisprudenza europea.
L’assicurazione obbligatoria non può, insomma, diventare un pretesto per non varare norme che tutelino il diritto di manifestazione del pensiero e il diritto di informazione. C’è ancora molto da fare, anche nel campo del diritto penale (irrilevante però ai fini assicurativi): le querele intimidatorie vanno disincentivate come le citazioni temerarie, la diffamazione va totalmente depenalizzata, l’esercizio del diritto di informazione deve diventare in diritto penale un’esimente di carattere generale, o quasi.

Una struttura piramidale di vigilanza

Il secondo aspetto critico riguarda la natura giuridica dell’Ordine, dietro la quale si nasconde il tema dell’autonomia dell’ente e quindi dei giornalisti. Secondo il disegno di legge (articolo 2 lettera l) le leggi delega devono normare gli Ordini come enti “soggetti alla vigilanza del Ministro competente e dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria”.

La questione è molto delicata. In cosa consiste, innanzitutto, la “vigilanza del Ministro competente”? La nostra legge istitutiva – così modificata nel 2010 – parla di Alta Vigilanza (articolo 24), che è concetto completamente diverso e più rispettoso dell’autonomia dell’Ordine e quindi della sua attività a favore degli iscritti. Alta vigilanza significa – coerentemente con il principio dell’autonomia – che il ministero può intervenire in occasione di massicce violazioni della legge, o nei casi in cui l’organismo non è più in grado di funzionare, ma niente di più. La vigilanza di cui parla il Disegno di legge sembra fare un passo indietro, verso una restrizione dell’autonomia.

La conferma viene dai commi successivi: il disegno di legge chiede ai decreti legislativi di  “riordinare e aggiornare la disciplina della vigilanza sulla singola professione tenendo conto delle peculiarità che la caratterizzano e delle specifiche competenze necessarie per il pieno ed efficace svolgimento della vigilanza stessa”, ma anche di “prevedere che gli Ordini e Collegi territoriali sono sottoposti alla vigilanza del Ministero individuato con i decreti di cui all’articolo 1, comma 1, nonché alla vigilanza del Consiglio Nazionale”. In nessuna parte la legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti prevede oggi la “vigilanza” sull’attività degli Ordini regionali da parte dell’Ordine nazionale. L’intenzione di ridimensionare l’autonomia degli Ordini costruendo una struttura piramidale amministrativa – ministero-Ordine nazionale-Ordine territoriale – è  eviente. Oggi gli Ordini regionali, chiamati a rispettare le leggi vigenti, rispondono ai Tribunali amministrativi regionali, se competenti, e ai tribunali ordinari. Domani potrebbero invece dover dar conto anche a una struttura di tipo amministrativo e non giurisdizionale che li sovrasta.

Un ente-Frankenstein

Il terzo aspetto critico sembra essere molto formale, ma non lo è. L’Ordine viene definito come “ente pubblico non economico avente carattere associativo”, accompagnato di “autonomia patrimoniale e finanziaria”. Sul punto si è già espressa la Corte di giustizia europea (pronuncia pregiudiziale 2013/C 325/05), secondo la quale gli ordini professionali – dal momento che si finanziano prevalentemente o esclusivamente, come in Italia, con le quote degli associati – sono di diritto privato, e non pubblico. Esiste un tema, sicuramente, di trasparenza dell’utilizzo delle risorse a disposizione, ma non può essere paragonato agli obblighi creati dall’imposizione fiscale generale e generalizzata. Il fatto che i ricorsi contro le sanzioni disciplinari vadano presentati al Tribunale civile e non, come in altri ambiti, al Tribunale amministrativo regionale, conferma questa natura ibrida degli Ordini. Anche perché si tende nello stesso tempo a considerare tipicamente pubblica l’attività dei Consigli di disciplina.

L’accusa di essere enti-Frankenstein rivolta agli Ordini professionali nasce proprio qui, da questa ambiguità non risolta che nasconde da una parte il desiderio di controllare un ente per sua natura autonomo, e dall’altra di normare i beni pubblici che gli Ordini tutelano (nel caso dei giornalisti, evidentemente, il diritto all’informazione). Gli Ordini non possono essere considerati come parte integrante della pubblica amministrazione, altrimenti verrebbe meno la loro autonomia, ma sono considerati nello stesso tempo “pubblici”. La dottrina giuridica li avvicina alla Croce rossa italiana e, entro certi limiti, alle Camere di Commercio.
Cosa significa tutto questo in concreto? Non è chiaro. La conclusione razionale di molti giuristi è che le norme riguardanti la pubblica amministrazione si applicano agli Ordini solo se questi sono espressamente citati. Il Consiglio nazionale forense, molti Ordini degli avvocati (e non solo) territoriali e anche alcuni Ordini dei giornalisti regionali hanno ritenuto opportuno varare – in un’ottica di gestione del rischio – delibere in cui escludono per esempio il rispetto delle norme sugli Appalti pubblici, particolarmente onerose per organismi così piccoli, pur impegnandosi a essere trasparenti. La stessa legge delega sembra in qualche modo tener conto di questa interpretazione dottrinale nel momento in cui chiede ai decreti delegati di “prevedere che al personale dipendente degli Ordini e Collegi Professionali si applichino le norme di cui al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e il Contratto collettivo nazionale del comparto Funzioni Centrali”. L’ambiguità non è però risolta.
Non diversa appare la questione della competenza dell’Anac, che ha comunque emanato norme molto leggere sugli ordini territoriali, e della Corte dei conti, disconosciuta dalla Cassazione. Sciogliere queste ambiguità, e farlo in modo da assicurare l’indipendenza degli Ordini, non sembra essere volontà del Governo.

Dall’autonomia all’indipendenza

Altri aspetti della legge delega vanno accolti positivamente, ma nella sua impostazione generale la legge sembra essere animata da una visione antiquata degli Ordini professionali, derivante dal Corporativismo cattolico dell’Ottocento (e solo lontanamente apparentato a quello fascista). Non c’è – ma forse sarebbe stato troppo ambizioso chiederlo all’attuale classe politica – uno sforzo di aggiornare gli Ordini alle esigenze dell’attuale società civile e dell’attuale sistema economico. Ripropone soprattutto un problema grave e non sempre avvertito: il rischio che il principio di sussidiarietà – il principio giuridico ed etico, adottato dalla normativa europea e italiana, secondo cui le decisioni e le attività devono essere svolte al livello più vicino possibile ai cittadini – venga interpretato in un senso gerarchico, e non nel senso dell’”indipendenza delle sfere”, coordinate da un sistema di norme e di responsabilità. Il risultato è quello di una riduzione dell’autonomia con forti rischi di torsioni autoritarie, tentazione alla quale non sembra sfuggire, sia pure con modalità profondamente diverse, nessuna forza politica delle moderne liberaldemocrazie.

Recapiti
Riccardo Sorrentino