Da sempre plasmata dagli scambi, la nostra identità gastronomica è figlia del meticciato, il risultato di una continua interazione. Se la cucina italiana ha saputo viaggiare diventando patrimonio condiviso, è grazie ai migranti italiani del secolo scorso: così potremo evolverci solo se sapremo continuare a restare aperti alle diversità del mondo.

Il 10 dicembre la cucina italiana è stata riconosciuta patrimonio UNESCO. Si tratta di un fatto estremamente importante perché riconosce la specificità del sistema alimentare italiano che individua nella diversità il suo perno portante. La cucina italiana è infatti tutt’altro che omogenea e la sua forza sta proprio nella diversità di specificità culinarie che si sono create in questo relativamente piccolo spazio di terra incastonato nel Mar Mediterraneo. È bene però dire che la cucina italiana non è la somma di cucina territoriali isolate tra loro, bensì il risultato di una continua interazione nel corso del tempo che ha plasmato profondamente la nostra identità gastronomica.

Come Slow Food difendiamo e promuoviamo il valore di questa diversità da quasi quarant’anni. Il catalogo dell’Arca del Gusto oggi custodisce 1239 prodotti che rischiavano l’estinzione a causa dell’omologazione e dell’agricoltura intensiva. I 401 Presìdi Slow Food sono invece diventati strumenti di resilienza e identità territoriale e rappresentano comunità che hanno scelto di salvare i propri prodotti e insieme immaginare un futuro economico locale più forte e sostenibile. Di fronte alla minaccia di scomparsa di questi prodotti si è generato un moto di orgoglio che ha fatto sì che le comunità si mobilitassero per proteggere e valorizzare ciò che le rappresenta.

La parola comunità è molto importante per capire dove risiede il vero valore del riconoscimento UNESCO che non sta tanto nel riconoscere la bontà e la qualità dei piatti e delle ricette iconiche del nostro Belpaese (quelli sono gli elementi tangibili, la punta dell’iceberg), quanto nel dare risalto alla sottostante cultura immateriale fatta di savoir faire, convivialità, trasmissione dei saperi tra generazioni ed esperienze di scambio.

La cucina italiana è figlia del meticciato

Gli scambi hanno arricchito la diversità ed è impossibile negare che la cucina italiana sia figlia del meticciato. Nel corso dei secoli in questa terra si sono alternate diverse civiltà, e da questa terra si è partiti per andare lontano ad incontrare altri popoli per poi tornare a casa con i frutti di questi incontri. Ogni scambio portava con sé qualcosa di diverso che ha lasciato il segno e ha plasmato la nostra identità gastronomica meticcia. In questa terra sono passati popoli provenienti dal Mediterraneo, dall’Oriente, dal Nord Europa e come risultato delle rotte commerciali sono arrivati ingredienti dall’Asia e dalle Americhe. Il grano è giunto in Italia dalla Mezzaluna fertile, il pomodoro dagli scambi colombiani con il Nuovo Mondo. In assenza di una cultura gastronomica aperta oggi non saremo noi nel mondo per la pasta al pomodoro (solo per citare uno dei piatti più emblematici). Il nostro è un Paese meticcio, e la cucina lo racconta meglio di qualunque altra cosa.

La raccolta del pomodoro fiaschetto di Torre Guaceto del Presidio

Non dimentichiamo il ruolo dei migranti

E c’è un altro meticciato che non va dimenticato: quello generato dai flussi migratori dei nostri nonni. Le comunità italiane nel mondo hanno fuso tradizioni regionali diverse, creando nuove forme di cucina che hanno apportato un contributo notevole nel rendere la cucina italiana così nota e apprezzata nel mondo. Ci fa riflettere la lettura della relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli emigranti italiani negli Stati Uniti dell’ottobre del 1912 che dice:

“generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Vivono in baracche di legno nelle nostre periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, poi sei, infine dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e che se ostacolati diventano violenti. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere, ma soprattutto non hanno saputo selezionare tra coloro che sono venuti per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o addirittura di attività criminali”.

Queste parole forti, poco più di un secolo fa utilizzate per descrivere i nostri connazionali che decisero di lasciare l’Italia alla ricerca di una qualità di vita migliore, oggi alcuni potrebbero spingersi ad usarle (in maniera discriminante ed inappropriata), per riferirsi ai migranti che arrivano nel nostro Paese. Siccome la cucina è per sua natura un linguaggio, come tutti i linguaggi vive di influenze, scambi, contaminazioni. Ogni migrante che si integra nella società ospitante è portatore di un elemento di diversità che arricchisce e non indebolisce. La straordinarietà della cucina italiana sta dunque proprio nell’aver saputo rendere fecondi questi incontri generando forme di meticciato che si sono radicate profondamente nell’identità territoriale.

Sapremo evolverci solo se continueremo a rimanere aperti alle diversità

Nel momento in cui la cucina italiana è riconosciuta patrimonio UNESCO è quindi importante ricordare il ruolo storico fondamentale svolto dai migranti. È grazie a loro se la cucina italiana ha saputo viaggiare, trasformarsi e radicarsi altrove, diventando patrimonio condiviso. Tramutato al presente questo stesso ruolo lo possono giocare le persone giunte in Italia da altri Paesi. In ultimo guardando al futuro dobbiamo anche essere consapevoli delle nuove sfide che ci attendono.

Il cambiamento climatico sta modificando e continuerà a modificare le colture: alcune le perderemo e altre nuove si aggiungeranno. Cambieranno quindi anche i prodotti e le cucine. Questo è un capitolo della storia ancora da scrivere. Se sapremo restare aperti alle diversità del mondo siano esse umane, biologiche o culturali, e metteremo in campo l’intelligenza affettiva e collettiva che nei secoli hanno permesso alla nostra cucina di evolversi, allora la cucina italiana potrà continuare ad avere il valore di patrimonio culturale immateriale che ieri ci è stato formalmente riconosciuto.

Carlo Petrini
da La Stampa dell’11 dicembre 2025