Rivalutazione delle pensioni, nel 2026 sarà dell’1,4% - SPI CGIL Veneto

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La misura è insufficiente a recuperare la perdita di potere d’acquisto subita dagli assegni previdenziali negli ultimi anni

Un aumento di 3,13 euro al mese, se va bene. È questo l’aumento che dal 1° gennaio avranno i pensionati e le pensionate al minimo dal 1° gennaio 2026, in seguito alla rivalutazione fissata all’1,4% dal decreto del ministero dell’Economia del 19 novembre, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 28 novembre 2025.

Spiega Ezio Cigna, responsabile previdenza della Cgil nazionale: «Le pensioni minime aumenteranno di 3,12 euro, passando da 616,67 a 619,79 euro. Una pensione nel 2025 di 632 euro netti passerà invece nel 2026 a 641 euro netti, solo 9 euro in più al mese; una pensione di 800 euro netti crescerà anch’essa di soli 9 euro mensili, da 841 a 850 euro; una pensione da 1.000 euro netti aumenterà di soli 11 euro al mese; mentre una pensione di 1.500 euro lordi, dopo la tassazione, crescerà di appena 17 euro mensili. Numeri che parlano da soli e che dimostrano come non solo non si recuperi la perdita accumulata ma si prosegua su una strada che impoverisce ulteriormente chi vive già con redditi insufficienti».

Un’analisi di Cgil e Spi evidenzia anche come l’assenza di un coordinamento efficace tra perequazione, fiscalità e maggiorazioni sociali produca effetti distorsivi sul piano dell’equità complessiva: ad esempio, trattamenti assistenziali e pensioni minime integrate – indispensabili contro la povertà e giustamente esentati da Irpef – possono avere importi netti finali talvolta superiori a quelli di pensioni contributive costruite con anni di lavoro e versamenti. Questo per una normativa che mantiene la no tax area ferma a 8.500 euro annui e non armonizza le regole tra i diversi istituti.

Per Lara Ghiglione, segretaria confederale Cgil, e Lorenzo Mazzoli, segretario nazionale Spi Cgil, «servono interventi strutturali e non operazioni di facciata. Da tempo chiediamo l’allargamento e il rafforzamento della quattordicesima mensilità, strumento fondamentale di sostegno al reddito per milioni di pensionate e pensionati, insieme all’allargamento della no tax area per i pensionati, perché gli aumenti reali vengono oggi assorbiti dal prelievo fiscale e i redditi più bassi stanno sprofondando nella povertà».

«La rivalutazione prevista per il 2026 – commenta Massimo Cestaro, segretario Spi Cgil Veneto non compensa la perdita di potere d’acquisto dei nostri pensionati, colpiti da un’inflazione reale ben più altae dal fiscal drag, che sappiamo ha sottratto a dipendenti e pensionati 25 miliardi negli ultimi tre anni. Risorse che il Governo non ha nemmeno deciso di utilizzare per finanziare servizi a beneficio dei cittadini, ad esempio welfare e sanità».

«Non dimentichiamo poi – prosegue – che, a parità di reddito, un pensionato paga imposte ben più alte di lavoratori dipendenti e autonomi: su 35.000 euro lordi all’anno, di imposte il pensionato paga 8.400 euro, un dipendente 6.900 euro, un autonomo in flat tax 4.000».

«Bisogna tenere conto che, con il sistema contributivo ormai a regime un lavoro che sempre più spesso è precario e discontinuo, andiamo verso una situazione in cui le pensioni saranno sempre più povere – conclude Cestaro – A 30 anni dalla Riforma Dini e a 14 dalla Legge Fornero, sarebbe ora riformare il sistema previdenziale e su questo vorremmo un confronto con il Governo».

Immagine di freepik

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