Poesie - Beatrice Zerbini

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1.

I

Sento chiamare il mio nome
e lo so che non sono io.

Lo so,
ma mi viene da voltarmi, io
sono le gemme,
i trucioli di matita per terra,
la guerra, la pista
da ballo;
sono la dermatite sulle mandibole, l’odore
di cloro, la neve,
i merli maschi, con il becco arancione
e le punte
degli ombrelli chiusi;
sono il parto,
sono venuta al mondo.

Sto appesa al mio corpo e sono
una che si volta.

II

Sono il mio cielo e
non mi annuvolo;
splendo, prima che faccia sera
e faccio sera.

III

Sospendo l’intenzione, il passo.

Chi mai potrebbe chiamarmi,
che non aspetto nessuno?

Non mi aspetto niente dalla strada,
non mi aspetto niente dai giorni,
niente dall’amore,
niente dalla vita intera che
mi traina, spinge, affossa, che
mi solleva,

che mi guarda di sbieco e da davanti;
solo tempo – mi aspetto e spero –
e il senno
e la voglia per salvarmi
ce li metto da me.

Mi volto perché
sono proprio io, comunque.

Brindo con lo sguardo
al disconoscermi,
brindo a negarmi, no:
non sono io. Mi giro e brindo.

C’è da festeggiare.

Ho le orecchie e vivo.

2.

Sento, se mi guardi dal buio
(di stare insieme, la notte),
il lampo,
il tuffo esatto in cui
la signora immerge il piede nel mare
e ha un sussulto;
l’applauso profondo da un fondo
di platea;
lo scoppio, il boato, lo slancio.

Sento il freddo,
l’abisso, ma anche
la mollezza
che separa gli oceani dai cieli:
ce li hai,
me li dai.

Sei,
sulle pupille così puntate e puntute,
materia
che indora le caviglie,
come un cerchio d’acqua.

Più di ogni altra cosa,
sei,
quando mi sei
accanto, nel buio e mi guardi:
e siccome è salire sul treno in ritardo,
atteso da in piedi,
io cerco, nel tuo sguardo,
la tana, il respiro, il rimedio:
mi trasfiguri e
sono
fra l’apnea
e lo svegliarsi in un Maestrale.

Quando abbassi le palpebre,
invece,
lo spazio è immenso e chiamano
da tutti i microfoni
che hanno perso una bambina:
eccomi.

Cerco, tra la mia veglia ed il tuo sonno,
la strada per non sentirmi sola
ad aspettarti,
domani.

Ti scruto come un soldato,
una guardia che si chieda
quando tornerai in questo paese vigile,
ché qui ti si attende per l’armistizio.

Riapri gli occhi alla fine,
ti svegli,
ed è mattino;
sento, se mi guardi dalla luce
(di lasciarti di giorno),
soltanto la mano.

3.

Esco,
vado a portare
fuori il dolore.

4.

Ti lascio all’amore pensato,
l’amore ti lascio,
da ammirarlo sul suo altare:

ti lascio
guardarlo senza toccare;
ti lascio
le parole, l’idea,
l’illusione che adesso
debba ancora arrivare,
ci sia un tempo diverso
da ora e ogni istante,
un tempo diverso
per amare,
non puntuale.

Io vado a fare e
faccio
che vado,
perché ho giusto qui
una vita, qui
un cuore.

E mi pare
si muoia più a non vivere
che a morire.

5.

Arrossa come sangue
vivo, l’epilogo dei blu:
del cielo, del mare, degli occhi,
fa’ coltre, fa’ sonno, fa’
tu;
poi sbianca, depriva, smungi,
fai torpidi
i giardini dei circoli;
finiscici,
in fuga dai tendoni burrascosi;
chiudici
dentro alle vetrine dei bar,
a scampare il disastro di un metro;
prendi
i bambini da dietro
i cancelli di scuola,
lascia che
s’infanghino i garretti,
sporca, raffredda, zittisci.

Piovi, ingrigisci, sciogli
le foglie sotto
alle suole;
strappa di venti per strada
il velo alle suore.

Ridi nel mosto,
mettici
i frutti nei piatti;

sii autunno, senza
vergogna, tripudio
di niente, preludio
al finire; per quanto
difetti
di gemme, sii
perfettamente autunno.

Qualcuno ti amerà pure,
senza che sbocci,
senza tu splenda,
senza tu dia,
ché tutto prendi;
lo avrai un fiorire tuo
che non ti vedo io,
la tua
stagione degli amori, in te,
come anche il morire dovrà pure
da qualche parte
cominciare.

6.

Penso, 
mentre arrivi:

Potremmo dividerci
le vite -
io e te,
un plurale 
di prime persone.

Penso - 

Sapremmo.
Potremmo ascoltare le sveglie 
delle case degli altri;
essere noi i vicini 
di fianco;
essere noi “loro”, 
un nucleo di pigiami stesi fuori.

Sappiamo,
io e te,
indurire i limoni, nello stesso, 
comune frigorifero:
ammuffiamoli;
amiamoci, 
ammutoliamoci,
con i baci agli angoli
della bocca,
appena possiamo!

Caffè e cappuccio,
noi due,
un tutt’uno,
di mattini opachi,
freddi non più 
del freddo
di due freddi
di città diverse.

Facciamo cose 
con la lettera m,
ma senza morire:
mugoliamo,
sul collo;
meritiamo-
ci;
mescoliamo
i corpi;
misceliamo
i sussurri;
mangiamo;
modelliamo le mani,
a forma di carezza;
misuriamo 
le parole;
meditiamo un modo
per non fare 
male
quasi mai.

Ti aspetto e rimugino,
mentre arrivi.
Quando arrivi?

Te la immagini una vita,
con me, 
con noi?

Dividi la distanza 
e moltiplica per due.

In attesa di essere collegata con l’interno desiderato, 
pin e tasto verde,
grazie,
prego;
poche scuse,
se possiamo,
viviamo.

Amore.
Arrivi.
Abbracciamoci.

Allontaniamoci 
insieme 
dalla linea gialla.

7.

Non ho bisogno di te
per sentirmi sola.

Mi basto da me,
posso farlo da sola.

Recapiti