Si può dire che la Sonata per pianoforte op.106 di Beethoven occupi, all’interno del catalogo pianistico dell’autore, una posizione analoga a quella della Nona Sinfonia tra le composizioni orchestrali. L’opera 106 non è conclusiva (così come alla Nona avrebbe fatto seguito un’abbozzata Decima), ma è senza dubbio la più monumentale delle trentadue Sonate. E per unanime consenso è anche la più difficile sul piano tecnico e interpretativo. Si dice che Chopin, sentendola eseguire niente meno che da Liszt, abbia avuto una reazione poco entusiastica e assai fredda: ammesso che l’aneddoto sia storicamente vero, sarebbe una conferma dell’atteggiamento ambiguo del sommo compositore polacco nei confronti di Beethoven, venerato sì per alcune opere di ‘raffaellesca purezza’, ma ritenuto anche ‘troppo rude, atletico e violento’ in altre composizioni. Così è, talora, l’ultimo stile di Beethoven, e in particolare quello della Sonata op.106: fascinoso o respingente, irresistibile o enigmatico a seconda dei punti di vista. La prima edizione a stampa, pubblicata da Artaria a Vienna nel 1819, reca un frontespizio in lingua francese: ‘Grande Sonate pour le Piano-Forte’. Nella coeva edizione tedesca il pianoforte era detto ‘Hammerklavier’ ed è proprio con questa denominazione che la sonata è passata alla storia. Dedicatario dell’opera, l’arciduca Rodolfo d’Austria, fratello dell’imperatore regnante, nonché cardinale e principe vescovo di Olmütz in Moravia, era un allievo dello stesso Beethoven: discreto compositore, doveva essere anche un pianista di vaglia se ebbe la dedica, fra l’altro, degli ultimi due Concerti per pianoforte e orchestra, entrambi assai impegnativi. Gli schizzi rivelano che il tema d’apertura del primo movimento nasce come un motto musicale sulle parole ‘Vivat, vivat Rodolphus’.
Eloquente il difficile salto iniziale della mano sinistra (volendo, questo passaggio potrebbe essere semplificato distribuendolo fra le due mani, ma l’effetto verrebbe meno): è come se Beethoven preparasse il pianista alle insidie disseminate in tutto il pezzo tramite una scrittura sovente scomoda e polifonicamente intrecciata.
Tra le particolarità della grande Sonata si nota il Trio in si bemolle minore dello Scherzo, quasi una rivisitazione della giovanile Sonata op.7, seguito da un’eccentrica transizione che termina con un ruvido tremolo prima della ripresa. L’Adagio è immenso e di carattere contemplativo nelle sue varie componenti: «quasi stazioni di una Passione senza pubblico», secondo un efficace paragone di Giorgio Pestelli. Segue, dopo un intenso Largo introduttivo, arcano e molto, capriccioso, il movimento culminante (e conclusivo) dell’intera Sonata: una «Fuga a tre voci con alcune licenze». È una summa di artifici contrappuntistici, in un linguaggio ora aspro, ora suggestivo (nella parte centrale), che conducono poco alla volta, tra rotolanti semicrome e grande dovizia di trilli, ai liberatori accordi finali in fortissimo.
Composta a Weimar nel 1853, la Sonata in si minore di Liszt ha la particolarità di essere articolata in un unico grandioso movimento, suddiviso al suo interno in varie sezioni contrastanti, dove trovano spazio motivi musicali sommessi (si pensi al misterioso inizio sottovoce esposto nel registro grave del pianoforte), improvvise eruzioni sonore, delicati momenti lirici e perfino un ambizioso fugato. Rivoluzionario in musica al pari di Wagner, Liszt trova in questo capolavoro, che volle dedicare a Robert Schumann, una personale e convincente risposta al problema di conciliare la tradizione classica della Sonata con la mutata sensibilità artistica del medio Ottocento.