di Andrea Follini
Siamo giunti all’anniversario di uno dei momenti più critici e difficili della storia del Medio Oriente moderno. I barbari attacchi verso civili indifesi mosso dai miliziani di Hamas il 7 ottobre del 2023 in territorio israeliano hanno lasciato un segno indelebile nella storia di quest’area. Da un lato un popolo, i palestinesi, schiacciati da una parte dall’atavico conflitto con il popolo ebraico, e dall’altra da coloro che si dichiarano essere i suoi difensori, ma che utilizzano invece proprio i civili come scudo per le proprie attività terroristiche, lasciati alla fame nonostante i copiosi finanziamenti dall’estero. Dall’altro lato gli israeliani, guidati da un governo di destra ed ultra destra, eletto democraticamente, che rifugge ogni mediazione e, per la necessità di rispondere al proprio elettorato, non cessa di girarsi dall’altra parte anche quando i coloni bruciano le case degli arabi in Cisgiordania e ne rubano le terre. Palestinesi ed israeliani. Ebrei ed islamici. Avvolti tutti insieme in un turbinio di morte e distruzione che dopo quei tragici giorni di ottobre, sono tornati a scuotere il mondo.
La storia dei territori di Palestina, colpiti dalle smanie coloniali di un Occidente sempre definitosi civile, è arci nota, così come le conseguenze delle scelte che su di essa la comunità internazionale ha operato. Ma il riacuirsi dell’eterno conflitto israelo-palestinese è invece storia recente. Storia nella quale gli interessi prevalenti non sono certo quelli della povera gente e di chi, arabo od ebreo che sia, si trova nel mezzo di un conflitto che non vuole, perché il solo obiettivo che ha in cuore è quello di vivere in pace.
Gli accordi di Abramo
Dopo i trattati stipulati tra Israele ed Egitto nel 1979 e con la Giordania (1994), grazie alla mediazione statunitense nel 2020 sono stati siglati analoghi accordi di riconoscimento e di normalizzazione bilaterale tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e tra Israele ed il Bahrein. Questi due ultimi, raccolti sotto la denominazione di Accordi di Abramo, dal nome del profeta riconosciuto sia dalla religione ebraica che dall’islam, hanno rappresentato un primo passo concreto verso la pace nell’area. Nel finire del mese di settembre 2023 erano in corso trattative analoghe per la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Arabia Saudita. Tassello importantissimo per la normalizzazione e la pacificazione dell’area. Il delinearsi di una condizione che avrebbe probabilmente davvero influito positivamente in una prospettiva di pace definitiva, non poteva certo essere accettata da quanti, nell’area, da sempre professano la necessità della distruzione dello Stato di Israele e l’annientamento di tutti i suoi abitanti e sono da sempre tra essi, avversari storici (l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita): al profilarsi dell’accordo israelo-saudita, l’Iran per voce del suo capo supremo il presidente iraniano Ebrahim Raisi dall’assemblea generale dell’Onu in corso a New York lo scorso anno ha accusato l’Arabia Saudita di voler tradire la causa palestinese. Venti giorni dopo, il feroce attacco del 7 ottobre in territorio israeliano manda tutto all’aria.
Il 7 ottobre
Un blitz, tremendamente ben organizzato e volutamente ben documentato. Uomini di Hamas, Movimento Islamico di resistenza, organizzazione politica islamista sunnita e fondamentalista, entrano armi in pugno, con espedienti diversi, in più punti nel territorio di Israele, provenienti da Gaza. Con una serie di attacchi efferati uccidono circa 1200 civili e militari israeliani e rapiscono circa 250 di questi. Le immagini di questo evento fanno rapidamente il giro del mondo. La sorpresa degli israeliani è grande, come la rabbia che monta per quanto accaduto, sia nei confronti di Hamas che nei riguardi del governo Netanyahu, accusato di aver permesso che questo accadesse, e anche di aver sostenuto economicamente Hamas in precedenza. La convinzione generale nel Paese è che la pace non sarebbe stata conveniente neanche per il Premier, chiamato in causa in quel periodo dal tribunale distrettuale di Gerusalemme, accusato di frode, violazione della fiducia e corruzione. Dopo alcuni giorni, Israele passa al contrattacco e, con l’intento di ricercare i rapiti, mette in atto una serie di azioni militari che vanno dal bombardamento ai raid aerei, sino all’ingresso a Gaza dei militari dell’Idf. Il bilancio dei morti civili, delle distruzioni di infrastrutture, dei raid negli ospedali, aumenta di giorno in giorno.
A Gaza non si vive: si sopravvive o si muore
La situazione all’interno della Striscia di Gaza si aggrava continuamente. Attaccati acquedotti ed ospedali, bloccati gli aiuti umanitari che, dall’estero, consentivano il sostentamento dei civili; la federazione di Croce Rossa Internazionale e Mezzaluna Rossa segnalano ben presto lo scoppio delle prime epidemie. Denunciano inoltre come il personale sanitario palestinese sia oggetto di attacchi dei militari israeliani alla ricerca di miliziani di Hamas all’interno delle strutture ospedaliere e anche delle singole ambulanze, spesso fatti obiettivo degli attacchi. Gli attacchi di Israele si concentrano inizialmente nel nord della Striscia, invitando i residenti in quella zona di allontanarsi verso sud. Rasi al suolo gli edifici, l’offensiva israeliana si sposta nel centro dei territori, costringendo ancora una volta la popolazione civile a spostarsi ulteriormente a sud, salvo poi non saper più in quale direzione scappare dalle bombe. I civili di Gaza, già inseriti in un territorio con la più alta concentrazione di esseri umani per metro quadro del mondo, si ritrova ora ammassata in campi profughi improvvisati, privi di tutto e spesso, nonostante siano dichiarati sicuri, cioè non obiettivi militari, dall’Idf, vengono ugualmente bombardati. Nei primi mesi costruisce una difficile e fragile tregua, che consente lo scambio di prigionieri palestinesi con rapiti israeliani. Poi ciò non sarà più possibile. La situazione sanitaria a Gaza peggiora continuamente; sono pochissimi i punti sanitari che consentono un minimo di assistenza alla popolazione. Ma i medici denunciano di dover operare senza anestesie, di amputare “a vivo”, di non avere energia elettrica per alimentare i macchinari che tengono in vita pazienti gravemente malati o neonati prematuri. Una infermiera di Medici Senza Frontiere che ha lavorato in quell’area, proprio dalle pagine di questo giornale, ha raccontato di come “si senta costantemente l’odore del sangue” e di come sia rimasta sconvolta dal numero di bambini amputati che arrivavano al suo punto sanitario. Una desolazione.
Benjamin Netanyahu, detto Bibi
Ex militare, politico di spicco nel Likud, il suo partito. Figura molto discussa, in patria e fuori. È stato primo ministro tra il 1996 ed il 1999; poi dal 2009 al 2021. È adesso nuovamente in carica dal 29 dicembre 2022. Nel 2017 le prime avvisaglie di una incriminazione per corruzione. A maggio del 2024 la Corte Penale Internazionale , con un provvedimento a firma del Procuratore Capo Karim Khan, emette un mandato d’arresto con l’accusa di sterminio, utilizzo della fame come metodo di guerra, negazione di aiuti umanitari e stragi contro i civili. Tutto in riferimento alla gestione degli attacchi a Gaza. Incriminato con lui anche il ministro della difesa Yoav Gallant. In occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tenutasi il mese scorso a New York, Netanyahu nel suo intervento accusa lo stesso Onu definendo l’organizzazione “una palude di bile antisemita” e proseguendo “Non avevo intenzione di venire qui quest’anno. Il mio Paese è in guerra, sta lottando per sopravvivere. Ma dopo aver sentito le bugie e le calunnie rivolte al mio Paese da molti degli oratori su questo podio, ho deciso di venire qui e mettere le cose in chiaro”. Mentre prendeva la parola, i delegati dei Paesi arabi e dei Paesi del cosiddetto “Sud Globale”, abbandonavano l’aula del Palazzo di Vetro in segno di protesta.
L’opinione pubblica nel mondo chiede con forza di cessare il fuoco; i governi lo fanno sottovoce
C’è una mobilitazione in tutto il mondo perché cessino gli orrori di Gaza. Si registrano proteste nelle università; manifestazioni di piazza; cresce anche l’antisemitismo, che in alcuni casi si trasforma in violenza gratuita. Ma anche nello stesso Israele i cittadini protestano, scendendo in piazza, bloccando strade ed autostrade, chiedendo le dimissioni di Netanyahu ed un maggiore impegno per la liberazione degli ostaggi, anche venendo a trattative con Hamas. Chiede di cessare il fuoco anche il Presidente Usa Biden, pur senza paventare alcuna ritorsione. Dal palazzo di vetro di New York, l’unica voce che chiede di fermare le armi è quella del segretario generale Guterres. Ma al di la dei buoni propositi, il nulla. Solo Papa Francesco non smette mai di chiedere il ripristino della pace, ammonendo inascoltato che la guerra non può che generare odio su odio, in una spirale capace di annientare tutti. Nell’occidente, patria delle libertà e del diritto, in molti decidono di non decidere e, piuttosto che prendere parte, preferiscono girare altrove lo sguardo. La stessa Unione Europea, che vorrebbe acquisire maggiore autonomia ed autorevolezza in politica estera, tace.
L’informazione ed i suoi limiti
Non essere dipendenti dalla propaganda, durante un conflitto, per i media non è facile. Ricercare la verità, raccontare i fatti, dovrebbe essere l’imperativo. L’Avanti! della domenica non si è sottratto da questo compito, e la sua voce su quanto succedeva e sta succedendo in Medio Oriente non è mai mancata. È stato così per molti operatori dell’informazione, pur con la difficoltà di reperire informazioni dirette sul campo; l’accesso dei media stranieri non è sempre stato consentito a Gaza, limitato dallo stesso esercito israeliano, Per ordine del tribunale, è stata chiusa anche l’ultima emittente araba che riusciva, sebbene con difficoltà, a trasmettere dalla sede in Cisgiordania, da Ramallah; gli operatori di Al Jazeera erano infatti gli unici che riuscivano ancora a verificare la situazione e a diffondere le immagini da Gaza.
Non si cessa il fuoco ed il conflitto si allarga
In questa situazione estremamente compromessa, difficile rimettere a posto i cocci. Ma nemmeno si tenta di farlo. Israele, colpito dai razzi lanciati da Gaza e da quelli partiti dal sud del Libano per mano di Hezbollah, avvia un secondo fronte di combattimenti andando ad attaccare il sud del Libano, anche per mezzo dell’aviazione, violando di fatto la sovranità libanese. La ricerca dei capi di Hezbollah è la motivazione avanzata; ma anche qui, sono i civili a pagare il prezzo più alto in termini di vite umane in questa guerra che rischia di allargarsi a macchia d’olio. Sta già succedendo mentre scriviamo: Israele si prepara ad un’offensiva di terra nel sud del Libano; sono state bombardate dagli aerei anche infrastrutture nella parte occidentale dello Yemen.
Scenari
Dopo l’uccisione pianificata ed attuata dei leader di Hamas e di Hezbollah da parte dell’intelligence e dei militari israeliani, con chi dialogherà Tel Aviv per ricercare non tanto la pace ma almeno un cessate il fuoco? Forse non era questo l’obiettivo, bensì far continuare un eterno conflitto che vede palestinesi da un lato ed israeliani dall’altro? Sembra proprio di si. La risposta di Teheran non si è fatta attendere ed il lancio di missili su Israele ha avuto corso. Questo fa pensare ad una ulteriore risposta israeliana verso l’Iran. Già si parla di attacchi mirati alle strutture petrolifere del Paese; ne ha parlato anche il presidente Biden. La spirale, quindi, ha avuto inizio. Del resto non si poteva certo pensare che il bombardamento dell’area nord della Galilea da parte di Hezbollah, con le relative distruzioni e lo sfollamento dei civili israeliani dalle loro case verso il sud del Paese, non rimanesse impunito. Ed infatti, la penetrazione in territorio libanese dei soldati israeliani ed il bombardamento delle postazioni Hezbollah nel Libano ne sono la conseguenza. Questo continuo ping pong, con nel mezzo come sempre la povera gente, lascia in angoscia il mondo intero e non fa presagire nulla di buono per il futuro. In tutto questo, dov’è finita la tanto decantata diplomazia. Quale si prospetta il futuro per la tanto agognata sintesi di avere due stati e due popoli, come da oramai più di cinquant’anni si chiede, per dare pace a quella terra così martoriata? Quale forza ed autorevolezza può avere l’Autorità Palestinese per riprendere le redini di un rapporto con Israele, se minata dall’odio crescente? Sono tutti interrogativi ai quali non è facile dare risposta, ma tutti sul tavolo di coloro che dovrebbero prendere seriamente delle decisioni che portino a cessare un conflitto che ha prodotto decine di migliaia di vittime innocenti, che ha portato maggiore insicurezza in tutta l’area e che rischia di espandersi con conseguenze inimmaginabili. “È il tempo della diplomazia”, si continua a dire anche oggi. Ed è un buon ausp