Neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche: il trapianto di midollo è l’obiettivo per guarire

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Prof. Emanuele Angelucci (Genova): “La procedura va presa in considerazione in tutti i pazienti idonei”

All’interno delle ossa si trova il midollo osseo, dove risiedono le cellule staminali ematopoietiche, quelle che possono dare origine ai globuli rossi (eritrociti), alle piastrine e ai vari tipi di globuli bianchi (o leucociti). In buona sostanza, gli elementi corpuscolari che compongono il sangue nascono nel cuore delle ossa perciò una delle soluzioni terapeutiche per le malattie ematologiche, come le leucemie e i linfomi, è costituita dal trapianto di cellule staminali emopoietiche. Questa procedura, che nei decenni ha salvato la vita di milioni di malati, costituisce uno snodo essenziale anche nel percorso di cura delle persone affette dalla neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche (BPDCN).

Fino a poco tempo fa, infatti, la BPDCN veniva trattata con schemi mutuati dalla leucemia mieloide, dalla leucemia linfoblastica acuta o da alcuni linfomi a cellule B, e gran parte dei pazienti andava incontro a ricadute di malattia difficili da combattere. Dagli studi effettuati sulla BPDCN è quindi emersa la necessità di ricorrere al trapianto di cellule staminali ematopoietiche da donatore, la sola speranza di guarigione dalla malattia. In questo contesto, di grande aiuto è la recente approvazione di tagraxofusp, il primo farmaco specificamente indicato per la neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche.

“In ogni paziente con una nuova diagnosi di BPDCN la prima cosa da stabilire è l’idoneità a una terapia potenzialmente curativa, che prima comprendeva un regime chemioterapico di induzione intensiva ma che adesso può contare su un farmaco mirato”, spiega il professor Emanuele Angelucci, Direttore dell’U.O.C. di Ematologia e Terapie Cellulari presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova. “Il percorso di cura ha inizio con alcuni cicli di tagraxofusp per poi accedere al trapianto. Se invece il paziente non è idoneo al trapianto viene allora consigliata una terapia di contenimento, continuando ad assumere tagraxofusp fino all’eventuale progressione di malattia”. Purtroppo, la neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche colpisce in maniera prevalente persone anziane, che possono essere affette da comorbilità tali da rendere non applicabile la procedura di trapianto di cellule staminali ematopoietiche.

Sebbene attualmente abbia raggiunto tassi di successo elevati, il trapianto di cellule staminali ematopoietiche - specialmente quello allogenico, ossia con cellule staminali ottenute da donatore - rimane un intervento medico estremamente complesso e delicato, che in generale si riserva ai pazienti affetti da malattie ematologiche che non rispondono a eventuali prime linee di trattamento, composte per la maggior parte da farmaci chemioterapici. “Se un paziente ha più di 70 anni, oppure è affetto da problematiche respiratorie o cardiovascolari particolarmente gravi, non si può effettuare il trapianto”, chiarisce Angelucci. “La procedura comporta, infatti, una certa tossicità, e il rapporto rischio-beneficio deve sempre propendere per i benefici”.

Nel trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, le cellule da trapiantare vengono ricavate da un famigliare compatibile con il paziente; sfortunatamente, non sempre si trova questa compatibilità e bisogna sondare con accuratezza i Registri dei donatori per individuare le persone da cui prelevare le suddette cellule. Di norma la procedura comincia con la somministrazione di fattori di crescita granulocitari che stimolano la produzione di cellule staminali, le quali vengono poi mobilizzate e prelevate nella cosiddetta fase dell’aferesi: in questo modo sono pronte per poter esser infuse al paziente, il quale, tuttavia, dovrà prima sottoporsi ad un trattamento di condizionamento per eliminare le ultime ‘cellule malate’ e far posto alle nuove, che dovranno attecchire nel midollo osseo.

Nel caso della BPDCN si è visto che tagraxofusp è efficace nel mandare il paziente in remissione, seppur transitoria”, puntualizza Angelucci. “Perciò occorre sfruttare questa ‘finestra terapeutica’ per trovare il donatore giusto e pianificare il trapianto di cellule staminali ematopoietiche”. La procedura non è dissimile da quella effettuata nei linfomi, nelle leucemie o nella mielofibrosi, se non per il fatto che nel caso della BPDCN è stato appurato che la terapia radiante prima del trapianto produce un maggior effetto e predispone al meglio l’attecchimento delle nuove cellule. “Al termine del trapianto i pazienti dovranno rimanere in camera isolata per circa un mese di tempo, al fine di azzerare la possibilità di infezioni, le cui conseguenze sarebbero gravissime per una persona così immunodepressa”, sottolinea il prof. Angelucci. “Poi è necessario trascorrere un periodo di diversi mesi in day hospital, durante cui l’intensità del trattamento viene man mano diminuita”. La remissione completa - che coincide con la guarigione dalla malattia - rappresenta la tanto attesa conferma che l’operazione è andata per il meglio: soltanto a quel punto il paziente può dirsi definitivamente libero dalla malattia e dai trattamenti farmacologici altrimenti necessari per tenerla sotto controllo.

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info@osservatoriomalattierare.it (Enrico Orzes)