Neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche: promuovere la conoscenza della patologia serve a non far sentire isolato chi ne è affetto

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Giampiero Garuti (AIL): “Una diagnosi di malattia rara genera smarrimento; fondamentale promuovere il confronto tra pazienti, attraverso cui condividere esperienze, dubbi e timori”

C’è differenza tra una cardiomiopatia e un tumore raro del sangue? La risposta è piuttosto scontata, dal momento che le due patologie sono ben diverse e si sviluppano in seguito a processi fisiologici e molecolari molto differenti; ma al di là dell’aspetto biologico, in una malattia bisogna considerare anche quello psicologico, cioè l’effetto che essa genera sulla psiche dei malati. Un buon esempio di questa prospettiva è offerto dalla neoplasia a cellule dendritiche plasmacitoidi blastiche (BPDCN), un tumore ultra-raro che interessa i precursori delle cellule dendritiche plasmacitoidi, le quali sono prodotte nel midollo osseo e hanno un ruolo importante nella risposta immunitaria ai patogeni.

La BPDCN è considerata una malattia tumorale, dal momento che le anomalie delle cellule dendritiche plasmacitoidi sono associate anche a diverse altre neoplasie mieloidi, tra cui la leucemia mielomonocitica cronica, le sindromi mielodisplastiche e le leucemie mieloidi acute. Per una persona affetta da BPDCN non è affatto semplice spiegare la propria condizione ad altri che non abbiano la benché minima idea di cosa sia anche solo una cellula dendritica. “Il paziente affetto da una patologia di questo tipo, sconosciuta ai più e poco nota persino in ambiente medico, si trova in una situazione difficile”, afferma Giampiero Garuti, Referente del Gruppo AIL Pazienti con Malattie Mieloproliferative (MMP Ph-). “Infatti, si trova in imbarazzo nel momento in cui deve dare una spiegazione esauriente a chi gli è vicino. Le malattie rare hanno spesso nomi impronunciabili e sintomi strani che creano diffidenza. Quasi sempre si nota la sorpresa o l’imbarazzo negli occhi di chi ascolta e non comprende la tipologia di problema. Questo genere di sentimento, per quanto naturale e involontario, ferisce il paziente, che si sente ancora più solo nella sua sofferenza”.

La maggior parte delle persone ha ben chiaro quali siano e cosa comportino condizioni come le cardiopatie: di infarto del miocardio, angina pectoris e altre malattie cardiovascolari si sente spesso parlare in televisione e nei programmi di approfondimento, e anche le terapie disponibili e gli interventi possibili sono ampiamente conosciuti dal pubblico. “In questo senso, le malattie note all’opinione pubblica sono più ‘facili’, anche perché in molti casi sono curabili”, prosegue Garuti. “Invece, la malattia rara non lo è, e si tende ad avere più paura di ciò che non si conosce. Temere l’ignoto è normale, per questo occorre diffondere la consapevolezza di tumori e malattie rare come la BPDCN. Conoscere la malattia contribuisce a fare la differenza”, prosegue Garuti, che ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza dell’isolamento, in quanto già affetto da mielofibrosi. “Se l’interlocutore mostra sorpresa o incredulità il paziente prova dolore. Si sente isolato, non compreso dalle persone che ha accanto”.

Lavorare per promuovere una maggior conoscenza delle malattie onco-ematologiche rare come la BPDCN contribuisce a far sentire chi ne sia affetto più accettato e inserito in un contesto sociale da cui, altrimenti, rischierebbe di uscire. “L’utilizzo di questionari o di altri strumenti specifici per rilevare la qualità di vita dei malati è una buona soluzione per avere un’idea dell’impatto della patologia”, afferma ancora Garuti. “Altrettanto fondamentale è la possibilità di aver accesso a un gruppo di pazienti, all’interno del quale poter condividere le proprie esperienze, i dubbi e i timori”. Incontrare altre persone con problemi analoghi ai propri fa sentire meglio non soltanto i pazienti ma anche chi di loro si prende cura: per il caregiver avere uno spazio dedicato all’ascolto e alla condivisione è altrettanto utile che per il malato. Inoltre, da questi momenti di confronto possono giungere informazioni riguardanti possibili trial clinici dedicati alla patologia in questione, e per pazienti e familiari venirne a conoscenza significa avere la possibilità di farne parte e poter continuare a sperare, oltre che sapere che il proprio contributo potrà servire, in futuro, ad altre persone. “Uno dei concetti su cui, come associazione, ci soffermiamo con maggior frequenza è relativo all’opportunità di fare rete”, precisa Garuti. “Dar vita a un network di persone - pazienti, medici e rappresentanti delle associazioni - collegate a una patologia rara consente di studiarla più a fondo, di comprenderne i meccanismi eziopatogenetici e di progettare sperimentazioni cliniche per testare possibili nuovi farmaci con cui contrastarla”.

L’informazione, poi, assume ancora più valore in relazione alle opzioni terapeutiche esistenti per una data malattia, come ad esempio il trapianto di cellule staminali ematopoietiche nella BPDCN. Attualmente, il trapianto continua ad esser percepito come una procedura ‘spaventosa’, perciò all’interno dei gruppi di pazienti AIL, o di altre associazioni, si stanno costituendo sottogruppi composti da persone che abbiano già affrontato o siano in attesa di sottoporsi a questa procedura. “Fino a un paio di decenni fa il trapianto di cellule staminali ematopoietiche produceva risultati positivi in una limitata percentuale di persone, ma oggi più del 90% dei casi di trapianto ha un decorso positivo”, sottolinea Garuti. “Saperlo è importante, perché questo intervento può significare la guarigione da una malattia che, allo stato attuale, non ha altra soluzione definitiva”. Nel caso della BPDCN, infatti, il trapianto è una stazione cruciale del percorso di cura e bisogna che i pazienti prendano consapevolezza di ciò e che ne conoscano anche i risvolti più tecnici, per potervisi sottoporre con serenità nell’ottica di un futuro libero dalla malattia.

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info@osservatoriomalattierare.it (Enrico Orzes)