Dentro una strategia: le 5 scelte fondamentali che guidano un progetto di comunicazione - Disclosers

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Quando si parla di strategia di comunicazione si tende spesso a pensare a un documento iniziale, a una presentazione ordinata che precede “la parte interessante”, quella dei contenuti, delle campagne, delle uscite stampa, degli eventi. In realtà, sempre più evidenze mostrano che la differenza tra progetti che generano valore e iniziative destinate a esaurirsi nel giro di qualche settimana nasce molto prima, in quello spazio di lavoro in cui si osservano i media, si studiano i settori, si formulano ipotesi e si selezionano con cura le priorità.

I dati sul rapporto tra pubblico, media e istituzioni raccontano un quadro esigente.

Il Digital News Report 2024 del Reuters Institute registra livelli di fiducia nelle notizie stabilmente intorno al 40% a livello globale e una quota crescente di persone che dichiara di evitare le news per saturazione, sfiducia o stanchezza cognitiva.

Parallelamente, il 2024 Global Comms Report di Cision e PRWeek evidenzia come per oltre 400 senior communicator intervistati la pressione principale riguardi la capacità di dimostrare impatto, usare i dati in modo sistematico e presidiare un ecosistema di canali sempre più complesso.

Le PR smettono quindi di essere un’attività accessoria e tornano alla loro definizione più sostanziale: una funzione manageriale che incide sulle decisioni, contribuisce a costruire e proteggere la reputazione e orienta la percezione degli stakeholder. L

o sottolinea anche il rapporto congiunto Institute of Directors – CIPR sul ruolo delle public relations nella pianificazione strategica e nella gestione di crisi, che descrive la comunicazione come un elemento strutturale dei processi decisionali, non come una fase finale di “messa in scena”.

In agenzia lavoriamo esattamente su questo piano: prima di qualsiasi attività operativa, ci concentriamo sulle scelte (e sulle analisi) che reggono l’intero impianto strategico. Di seguito, proviamo a entrare dentro alcune di queste scelte, così come le affrontiamo ogni giorno nella costruzione di un progetto di comunicazione.

1. Scegliere di studiare: l’aggiornamento continuo deve essere un’infrastruttura strategica

Ogni strategia solida nasce da una disposizione molto concreta: studiare in modo continuativo sia le dinamiche dei media sia il settore a cui appartiene il brand. L’idea di poter costruire piani efficaci senza una conoscenza approfondita dell’ecosistema informativo e delle logiche interne alle industry non è realistica, soprattutto se si considera come cambiano le abitudini di consumo delle notizie e dei contenuti.

Il Digital News Report mostra da anni una progressiva frammentazione delle fonti: accanto ai mezzi tradizionali si affermano piattaforme social, creator, newsletter verticali, podcast, forme ibride di informazione e intrattenimento. In alcuni mercati si registra anche un aumento del “news avoidance”, con persone che scelgono consapevolmente di esporsi meno alle notizie. Questo significa che chi progetta strategie di PR deve comprendere dove si forma davvero l’attenzione delle audience e quali codici narrativi risultano credibili in ciascun contesto.

A questo livello lo studio smette di essere un’attività accessoria per diventare una vera e propria infrastruttura di lavoro: lettura sistematica della stampa, monitoraggio di report di settore, osservazione delle conversazioni online, ascolto delle community. Alle competenze analitiche si affianca anche una componente di adattabilità: in un ambiente informativo così mobile, la strategia non può essere un documento rigido, ma una sorta di impianto che si aggiorna alla luce di nuovi segnali, spostamenti nel dibattito pubblico, mutamenti normativi o tecnologici.

L’aggiornamento continuo non riguarda solo il “cosa” si comunica, ma anche il “dove” e il “come”: nasce qui la prima scelta fondamentale, che potremmo sintetizzare così: decidere di considerare lo studio del contesto come parte integrante del progetto, non come una fase preliminare da esaurire prima di passare “al resto”.

2. Scegliere una visuale ampia: l’approccio integrato come criterio, non come opzione

Una volta definito il quadro di riferimento, la seconda scelta riguarda la prospettiva da adottare sulla comunicazione. Guardare il progetto attraverso un singolo canale o una singola leva rischia di restituire un’immagine parziale e di compressione, mentre le organizzazioni oggi vivono su piani molteplici: media tradizionali, piattaforme digitali, relazioni istituzionali, community, eventi fisici e digitali, leadership interne.

Sempre i dati del 2024 Global Comms Report mostrano come i team di comunicazione più influenti siano proprio quelli che riescono a orchestrare un approccio realmente integrato, dove digital PR, media tradizionali, contenuti owned, creatività e dati dialogano in modo organico.

In questa prospettiva, l’integrazione non coincide con l’accumulo di strumenti, ma con la capacità di scegliere, per ciascun obiettivo, la combinazione degli asset: coinvolgimento di creator e profili editoriali nelle digital PR, progettazione di eventi e press trip, partnership strategiche, percorsi di digital leadership per figure chiave, lavoro sui touchpoint digitali del brand.

Nella pratica, questo significa considerare ogni attività alla luce del sistema complessivo: una campagna di PR che non si collega alla presenza del brand sui propri canali rischia di disperdere valore; allo stesso modo, contenuti di thought leadership che non si innestano in un racconto aziendale coerente faticano a sedimentarsi (e ad essere considerati riconoscibili). La scelta fondamentale, qui, consiste nel rifiutare la logica del “canale di riferimento” e progettare invece un ecosistema, in cui ciascun tassello concorre a costruire posizionamento e reputazione.

3. Scegliere di fare consulenza: dal “rispondere al brief” al guidare la direzione

Un approccio veramente strategico implica una disposizione consulenziale che va oltre l’esecuzione di ciò che il cliente si aspetta o richiede nella prima fase del rapporto. Il lavoro di un’agenzia di comunicazione assume valore quando è in grado di mettere alla prova l’ipotesi iniziale, mettere in dialogo obiettivi e contesto, proporre strade che magari non coincidono con le aspettative di partenza, ma che hanno maggiore probabilità di incidere sulla percezione e sugli indicatori di reputazione.

Il rapporto IoD-CIPR sopracitato, sul ruolo delle relazioni pubbliche nella pianificazione strategica, sottolinea proprio questa dimensione: la comunicazione efficace è quella che interviene “a monte”, contribuendo a definire priorità, rischi e opportunità, e che non si limita a tradurre in messaggi decisioni già prese. In altre parole, la strategia di PR diventa un luogo di confronto dove l’agenzia porta al tavolo una visione autonoma, fondata su dati, osservazione dei media, esperienza di casi analoghi e comprensione delle dinamiche sociali.

Nella quotidianità questo si traduce nella scelta di non fermarsi al perimetro “minimo” del brief, ma di aprire domande:

  • quali sono le narrazioni che il brand ha già attivato e che oggi non funzionano più?
  • Quali spazi narrativi esistono nel settore ma che non sono ancora presidiati?
  • Quali rischi reputazionali emergono dalle conversazioni pubbliche?

L’obiettivo è costruire strategie capaci di accompagnare l’azienda in un percorso variegato e multidisciplinare, che includa canali, linguaggi e interlocutori diversi, mantenendo sempre coerenza.

4. Scegliere le priorità: lavorare sull’impatto della percezione

Una strategia di comunicazione efficace presuppone la consapevolezza che non tutte le azioni hanno lo stesso peso sulla percezione delle persone. La quarta scelta fondamentale riguarda quindi l’ordine delle priorità: capire quali angolazioni, quali storie, quali presenze pubbliche influiscono davvero su come il brand viene interpretato.

Le ricerche sui livelli di fiducia e sulle abitudini informative mostrano un pubblico selettivo, che filtra i messaggi in base alla rilevanza percepita e alla credibilità delle fonti.

Una strategia dispersiva quindi, che tenta di presidiare ogni spazio con lo stesso livello di intensità, tende a produrre un effetto di “rumore” di fondo. Lavorare sulle priorità significa invece scegliere poche narrazioni forti, ben fondate, coerenti con l’identità dell’organizzazione e con le aspettative degli stakeholder, e costruire attorno a queste un lavoro di medio periodo.

In concreto, selezionare le priorità implica un esercizio di sottrazione: decidere quali argomenti non è necessario presidiare, quali iniziative rischiano di saturare la presenza del brand senza spostare davvero la percezione, quali messaggi vengono percepiti come ridondanti. Il lavoro strategico consiste allora nell’allineare gli obiettivi interni dell’azienda con una mappa esterna della percezione, in modo che campagne, contenuti e uscite stampa non siano episodi isolati, ma tappe di un percorso in cui l’immagine pubblica si avvicina progressivamente ai goal definiti.

5. Scegliere di misurare e ricalibrare: l’ascolto come fase permanente

La quinta scelta riguarda la dimensione del tempo: considerare la strategia non come un atto iniziale concluso con la presentazione del piano, bensì come un processo che approfitta in modo sistematico dell’ascolto e della misurazione dei risultati per ricalibrare rotta e priorità.

Questo non significa ridurre la valutazione della strategia a pochi indicatori quantitativi, ma costruire un sistema di osservazione che combini analisi dei risultati (coperture media, qualità delle uscite, engagement, reach qualificata, sentiment) con elementi qualitativi: il tipo di testate che iniziano a considerare il brand come fonte, i temi su cui l’azienda viene interpellata, l’evoluzione del linguaggio utilizzato nelle conversazioni online, le reazioni degli stakeholder chiave durante incontri ed eventi.

La scelta di misurare in profondità porta con sé una conseguenza importante: accettare la necessità di rivedere le decisioni iniziali alla luce dei dati. In questo senso l’ascolto diventa una fase permanente, che consente di cogliere segnali deboli, ridurre i rischi di cristallizzazione della narrativa, intercettare tempestivamente cambiamenti nel clima informativo. Una strategia di comunicazione che integra in modo organico questa logica di feedback continua si avvicina sempre di più a una funzione di regia, capace di mantenere coerenza senza irrigidirsi.

Una responsabilità condivisa

Entrare dentro una strategia significa riconoscere al centro di un progetto di comunicazione ci sono scelte preliminari e ricorrenti che riguardano lo studio, l’integrazione, la consulenza, le priorità, la misurazione.

E costruire questo tipo di impianto non è un esercizio formale, bensì un’assunzione di responsabilità verso le organizzazioni e verso gli interlocutori a cui ci si rivolge.

Per le aziende, questo significa considerare il lavoro strategico come un investimento che richiede tempo, accesso alle informazioni interne, disponibilità al confronto e apertura a ipotesi alternative rispetto alle intuizioni iniziali.

Per chi lavora in agenzia, significa inserirsi e rimanere in uno spazio intermedio in cui la capacità di leggere i media, interpretare i settori, formulare scenari e proporre scelte diventa parte integrante del valore offerto, al pari dell’esecuzione impeccabile di una campagna o di un evento.

La qualità delle decisioni prese in questa fase “invisibile” produce effetti che si misurano nel medio periodo: stabilità della reputazione, capacità di presidiare in modo credibile temi complessi, relazione più matura con i media, maggior lucidità nel gestire momenti di crisi. È qui che la strategia smette di essere un documento e assume la forma di una pratica quotidiana, condivisa tra agenzia e azienda, orientata non soltanto a “far parlare di sé”, ma a costruire nel tempo una presenza pubblica riconoscibile, fondata e all’altezza delle aspettative del proprio ecosistema.


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