Negli ultimi anni il marketing e la comunicazione hanno smesso di assomigliare a un sistema relativamente stabile, fatto di pochi canali dominanti e logiche abbastanza prevedibili. Le piattaforme ridisegnano le proprie regole con una frequenza quasi stagionale, l’attenzione si spezza in micro-intervalli, la fiducia verso istituzioni, media e aziende attraversa una fase di erosione.
Il risultato è un ambiente in cui per un brand costruire una relazione con le persone assomiglia sempre meno a una campagna e sempre più a un lavoro di regia continua.
Il Digital News Report 2024 del Reuters Institute descrive con chiarezza questo “platform reset”: l’accesso alle informazioni si sposta sempre più verso piattaforme visive e video-first, cresce l’evitamento selettivo delle notizie, si riduce la disponibilità a dedicare tempo a contenuti percepiti come irrilevanti o faticosi. In parallelo, il Marketer’s Toolkit 2025 di WARC parla di ecosistemi di marketing che operano in un contesto di attenzione cronicamente bassa e di frammentazione strutturale, individuando trend che spingono i brand a ripensare radicalmente pianificazione, creatività e misurazione.
Su questo sfondo si innesta un ulteriore elemento: la questione della fiducia. Le ultime edizioni dell’Edelman Trust Barometer mostrano una tensione crescente tra innovazione, dinamiche sociali e percezione di affidabilità. La tecnologia viene vista al tempo stesso come promessa e minaccia; aumenta la sensazione che leader politici, manager e media non dicano l’intera verità, mentre il ruolo delle aziende viene osservato con aspettative sempre più alte in termini di responsabilità e coerenza.
In questo quadro l’AI gioca, ovviamente, un ruolo decisivo: accelera la produzione di contenuti, riduce barriere tecniche, rende più accessibili strumenti prima complessi. Proprio per questo però rimette al centro ciò che non si può automatizzare: la capacità di capire le persone, di leggere i contesti, di scegliere dove non comunicare, di costruire un posizionamento che regga nel tempo. La tecnologia rimescola le carte, ma la partita si gioca su un terreno profondamente umano: visione, etica, reputazione, qualità del pensiero.
Il Global Comms Report 2024 di Cision e PRWeek conferma questa trasformazione anche dal punto di vista delle funzioni interne: oltre 400 senior communicator indicano come pressioni principali la necessità di dimostrare impatto, usare i dati in modo sistematico e governare un ecosistema di canali che include media, social, creator, eventi, leadership dei vertici aziendali. In altri termini, comunicare non significa più “uscire sui media” o “fare contenuti”, ma orchestrare diversi sistemi.
In Disclosers lavoriamo già dentro questa logica: la strategia è lo spazio in cui si selezionano poche scelte nette, si definiscono priorità, si mette ordine tra strumenti di natura diversa per costruire reputazione e risultati a lungo termine. Lo abbiamo raccontato anche nell’articolo “Dentro una strategia: le 5 scelte fondamentali che guidano un progetto di comunicazione”, dove emerge come la vera differenza si giochi molto prima della prima uscita stampa o del primo reel.
All’interno di questo scenario in rapido riassestamento, ci sono almeno cinque cambiamenti che nel 2026 nessun brand potrà permettersi di ignorare: riguardano il modo in cui guardiamo alle audience, la qualità dei contenuti, il peso della reputazione e il grado di integrazione tra i diversi strumenti di comunicazione.
Frammentazione delle audience: dal pubblico unico agli ecosistemi di micro-community
La frammentazione è la condizione strutturale del mercato dell’attenzione. Le grandi audience generaliste si assottigliano e al loro posto cresce un insieme di micro-community che abitano piattaforme diverse, linguaggi specifici, rituali comunicativi propri.
Il Digital News Report 2024 mostra come l’accesso all’informazione passi sempre più da canali eterogenei: motori di ricerca, social network, app di messaggistica, newsletter, creator verticali. I giovani, in particolare, si informano attraverso flussi ibridi, in cui contenuti giornalistici, formati intrattenitivi, meme, commenti di influencer e aggiornamenti di brand si mescolano in un’unica timeline.
Per i brand questo significa che il vecchio modello del messaggio unico da veicolare attraverso pochi media dominanti diventa sempre meno efficace. Conta la capacità di costruire sistemi narrativi coerenti, che vivono in forme diverse a seconda del contesto: un approfondimento editoriale per chi cerca contenuti lunghi, un formato breve e altamente visuale per chi scorre da mobile, una conversazione ragionata in un podcast o in un evento dal vivo per chi desidera capire il “dietro le quinte” di un progetto.
Una logica dei “sistemi”, più che delle singole campagne, in cui si costruisce una presenza che torni riconoscibile anche quando il contenuto, il media o il device cambiano completamente.
Nel 2026 il vero vantaggio competitivo non sarà “raggiungere tutti e tutte”, bensì riconoscere quali comunità hanno davvero importanza per il brand, instaurare con esse una relazione credibile e accettare che l’assenza strategica da alcuni spazi valga più di una presenza dispersiva.
Saturazione dei contenuti: distinguersi significa scegliere, non produrre di più
Ogni anno la quantità di contenuti pubblicati cresce, mentre il tempo di cui dispongono le persone rimane identico. È una banalità solo apparente, perché da questa semplice asimmetria derivano molte delle sfide quotidiane delle funzioni marketing e comunicazione.
Il Global Comms Report 2024 rileva che i professionisti della comunicazione indicano tra le maggiori criticità proprio la difficoltà a emergere in un ambiente sovraccarico di messaggi e la necessità di dimostrare l’efficacia reale di campagne che si disperdono su molteplici canali. La risposta più istintiva – aumentare il volume, moltiplicare le uscite, presidiare ogni trend – finisce spesso per aggravare il problema.
In un contesto di saturazione, distinguersi significa tornare alla disciplina della selezione: meno contenuti, ma dotati di una funzione chiara. Alcuni pezzi servono a presidiare la reputazione di lungo periodo, altri hanno un obiettivo tattico (una call to action concreta, un lancio, un cambio di percezione su un tema specifico). Pretendere che ogni contenuto faccia tutto contemporaneamente è uno dei modi più rapidi per scivolare nell’irrilevanza.
Ritorno alla qualità editoriale e alla creatività
Mentre una parte del mercato rincorre la quantità, l’altra scopre che la vera scarsità si è spostata altrove: trovare contenuti ben scritti, ben progettati, capaci di aggiungere prospettiva invece di limitarsi a reiterare luoghi comuni è sempre più raro.
Proprio per questo la qualità editoriale torna a essere una leva competitiva.
Le analisi di WARC e di altri osservatori internazionali convergono: nei contesti a bassa attenzione vincono idee creative riconoscibili, radicate in insight reali, in grado di usare i codici dei diversi ambienti senza perdere coerenza di marca. La competizione si gioca sulla capacità di offrire una narrazione che le persone abbiano voglia di seguire nel tempo e nella quali si rispecchino o trovino profondità.
Questo “ritorno all’editoriale” ha diverse implicazioni. Significa investire in competenze di scrittura, di progettazione visuale, di comprensione e orchestrazione dei format; significa accettare tempi più lunghi per costruire progetti che abbiano una struttura. Significa considerare podcast, newsletter, pagine di approfondimento, eventi e conversazioni pubbliche non come accessori, ma come luoghi in cui un brand dimostra di avere qualcosa di sostanziale da dire.
La stessa Edelman Trust Barometer, nelle sue declinazioni dedicate ai brand, mostra da anni che le persone premiano non soltanto la qualità funzionale di prodotto o servizio, ma la coerenza tra ciò che un’azienda afferma e ciò che fa, la chiarezza del suo purpose, la capacità di assumere posizioni quando rilevante.
In Disclosers vediamo quotidianamente che la creatività realmente efficace nasce dall’incrocio tra rigore strategico e libertà di sperimentare linguaggi diversi. Non proponiamo “contenuti creativi” solo come esercizi di stile: ci interessa costruire format che possano evolvere, ospitare nuovi temi, diventare riconoscibili nel tempo. Che si tratti di un podcast, di una rubrica editoriale, di un progetto di thought leadership, il punto di partenza resta sempre una domanda: quale contributo unico può portare questo brand alla conversazione in corso nel suo settore.
La centralità della reputazione in un’epoca di sfiducia diffusa
Se l’attenzione è frammentata, la fiducia lo è ancora di più. I dati più recenti dell’Edelman Trust Barometer 2025 raccontano una crescente diffidenza verso figure apicali, a volte accusate di essere poco trasparenti o addirittura fuorvianti. Allo stesso tempo, la fiducia nei confronti del datore di lavoro rimane relativamente alta, pur mostrando un leggero calo negli ultimi anni.
In questo scenario la reputazione aziendale cessa di essere un tema “soft” e diventa un asset economico a tutti gli effetti. Le edizioni più recenti del Trust Barometer dedicate ai brand evidenziano che chi si fida pienamente di una marca ha maggiore propensione all’acquisto, maggiore fedeltà nel tempo, maggiore disponibilità a difenderla pubblicamente in caso di crisi. La reputazione agisce dunque come un moltiplicatore, perché quando è solida, rende più efficaci le azioni di marketing, quando vacilla, rende vulnerabili anche iniziative molto ben costruite.
Per chi si occupa di comunicazione questo comporta un cambio di prospettiva. Non si tratta più soltanto di presidiare l’immagine esterna, ma di contribuire a decisioni che hanno impatto sulla sostanza: politiche di sostenibilità, gestione delle crisi, relazioni con dipendenti, fornitori, comunità locali, modalità con cui si affrontano temi sensibili. In molti settori non è più credibile limitarsi a raccontare l’impegno sociale, ma occorre dimostrarlo con dati, progetti, partnership reali e soprattutto continuità.
Il Global Comms Report 2024 registra che le funzioni PR e comunicazione vengono sempre più coinvolte nei processi decisionali strategici, proprio perché chiamate a presidiare il capitale reputazionale dell’organizzazione, non soltanto la visibilità. È un mandato che richiede competenze manageriali, capacità di dialogare con il top management, lettura dei rischi nel medio periodo.
Nel 2026 i brand che avranno lavorato seriamente su questo asse godranno di un vantaggio concreto, conquistando la fiducia interna ed esterna all’azienda.
Integrazione tra canali e strumenti: dalla somma di tattiche ai sistemi integrati
L’ultimo grande cambiamento riguarda il modo in cui pensiamo ai canali. Per anni si è ragionato per silos: PR da una parte, social media dall’altra, advertising in un’altra area ancora, eventi gestiti come mondi a sé. Oggi questa frammentazione interna contrasta con la realtà esterna dove le persone vedono l’azienda come un’unica entità, indipendentemente da dove la incontrano.
Integrare non significa “replicare ovunque lo stesso messaggio”, bensì orchestrare strumenti diversi in modo che si potenzino a vicenda. Un contenuto editoriale pubblicato sul sito aziendale può alimentare una serie di interventi sui media, diventare la base per una rubrica social, trasformarsi in tema di un talk durante un evento fisico, generare un episodio di podcast. Ogni canale aggiunge una sfumatura, raggiunge un pubblico specifico, rafforza la credibilità complessiva del brand su quel tema.
Nel nostro lavoro cerchiamo di costruire fin dall’inizio una mappa di integrazione: per ogni obiettivo si definiscono non solo i messaggi e i pubblici, ma anche i punti di contatto più rilevanti e il modo in cui dovranno alimentarsi a vicenda. La strategia di comunicazione smette di essere un documento lineare e assume la forma di una rete, in cui i nodi sono canali, formati, partnership, momenti dal vivo.
Guardando al 2026, la vera differenza la faranno i brand che sapranno unire questa integrazione esterna a una governance interna altrettanto integrata: meno competizioni tra funzioni, più condivisione di dati, obiettivi comuni tra marketing, comunicazione, HR, sustainability, business development. Il pubblico non separa questi piani, e le aziende che continueranno a farlo rischiano di perdere coerenza proprio nel momento in cui servirebbe più compattezza.
Verso il 2026
Mettere insieme questi cinque cambiamenti significa riconoscere che la comunicazione nel 2026 richiederà qualcosa di diverso rispetto al passato recente. Non basterà presidiare correttamente i canali, né elaborare piani editoriali ordinati. Servirà la capacità di assumere poche scelte fondamentali e sostenerle nel tempo, come per esempio: quali audience hanno davvero importanza, quale posizione vogliamo prendere nel nostro settore, che tipo di contributo vogliamo portare alla conversazione pubblica, che ruolo assegniamo alla creatività, come intendiamo proteggere la reputazione quando le cose si faranno complesse.
La tecnologia renderà ancora più evidente il divario tra chi vive la comunicazione come un flusso di output e chi la considera uno strumento per governare l’impresa e guidarla verso la crescita. Gli strumenti automatizzeranno una parte delle operazioni, ma nessun algoritmo indicherà quali battaglie varrà la pena combattere, quali compromessi avranno un costo reputazionale eccessivo, quali silenzi peseranno più di qualsiasi campagna.
Per le agenzie e i team interni questo implica un cambio di postura: meno esecuzione reattiva, più consulenza; meno rincorsa al trend effimero, più costruzione di infrastrutture narrative in grado di reggere nel tempo. Tutto ciò porta anche ad accettare una certa “sobrietà” strategica: sapere quando fermarsi, quali canali abbandonare, quali format “spegnere” perché non aggiungono più valore.
Come Disclosers, crediamo che il compito di chi lavora nella comunicazione oggi sia aiutare i brand a navigare questa complessità senza semplificarla, ma riportando al centro l’idea di responsabilità verso le persone, verso i dati che utilizziamo, verso le parole che scegliamo, verso le promesse che decidiamo di fare.
Se il nostro approccio – che condividiamo attraverso tutti i nostri canali – i risultati che otteniamo, il nostro metodo di lavoro e i valori che ci guidano risuonano con il tuo brand e con le persone che lavorano nella tua organizzazione, contattaci.
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