Il marito è affetto dalla forma ereditaria di amiloidosi da transtiretina. La moglie: “Accettare la malattia è difficile, anche per i familiari”
“Circa 7 anni fa mio marito ha ricevuto una diagnosi bruttissima, quasi incomprensibile: amiloidosi cardiaca. Io e lui non avevamo mai sentito nominare questa patologia. All’inizio io avevo una funzione limitata: accompagnavo mio marito ai controlli, lo supportavo e gli stavo vicino, ma lui era ancora autonomo in tutto, nel lavoro come nella vita. Poi la malattia è peggiorata piuttosto rapidamente, tanto che ho dovuto supportarlo da un punto di vista fisico, perché non riusciva più a guidare, a fare le scale, a camminare in salita. Allora ho cominciato a sollevarlo dai compiti in casa che non poteva fare più e, pian piano, ha smesso anche di lavorare, perché non era più in grado di farlo.” Inizia così il racconto di Anna, moglie di Carlo (di cui vi abbiamo raccontato la storia qui).
Carlo è affetto da una forma severa di amiloidosi ereditaria da transtiretina (ATTRv), una patologia genetica multisistemica che coinvolge prevalentemente il cuore, impattando drammaticamente sulla vita dei pazienti. La patologia di Carlo è insorta molto precocemente rispetto alla media statistica: a 50 anni ha iniziato a mostrare i primi sintomi di una cardiomiopatia amiloide da transtiretina severa. I sintomi inizialmente si sono presentati con fiato corto e difficoltà a praticare sport, ma molto velocemente sono degenerati fino a rendere necessario un trapianto di cuore.
“Ci sono stati anche momenti in cui è stato necessario un accudimento fisico”, racconta Anna. “Non dovevo più accompagnarlo soltanto a fare le visite mediche, ma anche fornirgli assistenza sia in ospedale che quando tornava a casa e doveva fare le terapie. Per esempio, quando è caduto e si è rotto il bacino ho dovuto aiutarlo anche a mangiare e nell'igiene quotidiana. Anche dopo il trapianto ha avuto bisogno di aiuto per un periodo abbastanza lungo: quando era in ospedale lo imboccavo e, anche quando è tornato a casa, aveva ancora bisogno di aiuto nel fare tante cose, perché non ce la faceva neanche a vestirsi.”
LA MALATTIA
L’amiloidosi ereditaria da transtiretina (ATTRv) è una malattia causate dall’accumulo di una specifica proteina nei tessuti. Questa proteina si aggrega e si deposita nello spazio extracellulare in forma fibrillare, dando luogo a strutture estremamente ordinate e molto complesse dal punto di vista molecolare. I diversi organi e tessuti colpiti subiscono un progressivo danno, dovuto al sovvertimento del tessuto e all’azione proteotossica di queste molecole. La forma di patologia di cui Carlo è affetto è ereditaria, e purtroppo la forma di patologia che lui ha sviluppato è estremamente grave. Mentre per una larga parte dei pazienti sono sufficienti degli appropriati trattamenti farmacologici, nel suo caso il trapianto di cuore (data anche la sua giovane età) ha rappresentato l’unica opzione terapeutica possibile. L'amiloidosi ereditaria da transtiretina è una malattia progressiva e multisistemica che impatta su ogni aspetto della vita di chi ne è affetto: lavoro, famiglia e vita sociale.
“Col tempo è subentrato anche un malessere psicologico e mentale”, racconta ancora Anna. “Carlo non riusciva più ad affrontare i problemi. E questo sostegno a livello di umore rappresenta sicuramente la parte più difficile della vicenda. Quindi per me essere caregiver significa fare tutto quello che occorre per assistere una persona con una malattia è in evoluzione. Mio marito ha cominciato ad avere dei problemi nel 2018 e ha ricevuto la diagnosi alcuni mesi dopo, all’inizio del 2019. Tutto è cominciato perché entrambi correvamo a livello agonistico amatoriale, non che fossimo degli atleti, ma facevamo delle gare. A un certo punto, però, il medico non gli ha rinnovato il certificato medico sportivo perché l’elettrocardiogramma presentava delle curve anomale. Da lì è iniziato il percorso con un cardiologo (in Umbria, dove risiediamo) che gli ha diagnosticato una cardiomiopatia. Lui ovviamente non rispondeva alla terapia convenzionale, dunque è stato indirizzato all’Ospedale Careggi di Firenze, centro d’eccellenza per le cardiomiopatie. C’è voluto del tempo per ottenere il primo appuntamento, ma quando siamo arrivati ci hanno detto che non si trattava di cardiomiopatia. E così ci hanno parlato per la prima volta di questa amiloidosi, che per essere diagnosticata necessitava di ulteriori accertamenti, tra cui il test genetico. La diagnosi è arrivata dopo un percorso lungo alcuni mesi.”
DIVENTARE CAREGIVER
“Se mi guardo indietro – prosegue – mi rendo conto di quante cose ho fatto in questi anni, basti pensare a tutte le volte che sono andata avanti e indietro fino a Siena quando si è stato sottoposto al trapianto del cuore e non solo. Occuparmi di mio marito, gestendo la casa e le figlie, senza mai smettere di lavorare e con i permessi della Legge 104 sempre insufficienti, non è stato per niente facile. Con la malattia ho iniziato a vedere mio marito come persona malata, bisognosa di protezione e di aiuto. Così ho cominciato a sollevarlo da tanti compiti che normalmente faceva in casa. Da quando ha effettuato il trapianto di cuore la qualità di vita è nettamente migliorata, ma dall’amiloidosi non si guarisce mai e ancora non sta ancora in forma al 100%.”
“Qualche volta più che come moglie mi vedo come una caregiver – confida Anna – anche se abbiamo un rapporto solido perché abbiamo alle spalle 27 anni di matrimonio. Con la malattia mio marito è cambiato molto e non si può dire che sia cambiato in meglio. Dopo tutto quello che ha passato è diventato più nervoso, scatta facilmente come se avesse dentro sempre un po’ di rancore. Di conseguenza è cambiato anche il rapporto e, a volte, si crea una distanza tra di noi, perché non è sempre facile capire il reciproco vissuto.”
STRATEGIE PERSONALI PER ANDARE AVANTI
“Nei momenti dei ricoveri in ospedale, non c'era il tempo materiale per fare qualcosa per me. Poi, pian piano, ho cominciato a prendermi di tanto in tanto qualche momento personale, facendo delle piccole cose, come fare una camminata, andare in palestra o andare a vedere uno spettacolo. Ritagliarmi qualche ora per me mi aiuta molto: mi alleggerisce la testa e mi permette di staccare temporaneamente dai problemi, dandomi la possibilità di distrarmi un po’ e di concentrarmi su qualcos’altro, al di là della malattia.”
“Non posso usufruire di nessun aiuto professionale – racconta ancora Anna - ma nel momento in cui mio marito stava molto male, mi aiutavano un po’ mia madre o la mia figlia maggiore, che abita ancora con noi. Non che facessero chissà che, ma cercavamo di stare sempre con lui e di lasciarlo solo il meno possibile. Se potessi avanzare una richiesta alle istituzioni chiederei di personalizzare la legge 104 in base alle esigenze e al livello della malattia, perché se il caregiver deve lavorare i 3 giorni di permesso mensile sono totalmente insufficienti.”
“Le persone che stanno a fianco dei pazienti, dovrebbero essere seguite con maggiore attenzione, perché una cosa come quella che è capitata a me è spiazzante. E poi ci sono gli impegni economici, perché mio marito ha dovuto lasciare la società di cui era socio. Se non mi avessero aiutato mia madre e mia figlia, con un lavoro da dipendente come il mio, sarebbe stato impossibile ottenere un supporto a pagamento. Io non potevo permettermi di lasciare il lavoro e da un certo punto di vista sono stata anche fortunata, perché se non avessi avuto una madre che sta ancora bene e poteva restare con mio marito, non so come avrei fatto. Nei momenti peggiori Carlo non poteva rimanere da solo, perché magari gli girava la testa e rischiava di cadere, e se mia madre era lì con lui almeno poteva chiamarmi mentre ero al lavoro. Insomma, ci sarebbe bisogno di assistenza per i familiari che lavorano e non possono usufruire dei periodi di astensione dal lavoro facoltativi, che poi, nel mio caso, non sarebbero stati neanche sufficienti, perché io sono stata in ballo per anni.”
RELAZIONI SOCIALI DIFFICILI
“Le relazioni sociali si sono un po’ dilatate e rallentate, perché diventava sempre più difficile per noi uscire insieme agli altri. Anche perché noi avevamo l’impossibilità materiale di fare tante cose, anche andare a mangiare una pizza poteva diventare difficile, perché io dovevo trovare un posto dove mio marito dovesse fare solo pochi passi, e poi non dovevano esserci scalini ma doveva esserci un bagno comodo, insomma i vincoli era talmente tanti che a volte era più facile rinunciare.”
LA VITA CON LA MALATTIA VISTA CON GLI OCCHI DEL CAREGIVER
“Vivere con l’amiloidosi è brutto perché, tanto per cominciare, c’è ancora poca informazione. Trattandosi di una malattia rara e una malattia poco conosciuta, per farci seguire dobbiamo andare a Firenze, anche se abitiamo in provincia di Perugia. Si tratta di percorrere due ore di macchina per ogni controllo, che è chiaramente un disagio. Inoltre, dalle nostre parti non conosciamo altre persone con questa malattia, magari ci saranno anche, ma noi non le abbiamo mai incontrate e quindi non abbiamo modo di confrontarci con altri e scambiare informazioni, come accadrebbe se avessimo a che fare con tumore, l’Alzheimer o altre malattie più conosciute. Accettare la malattia è stato difficile, anche perché eravamo giovani: lui aveva 51 anni e io 46. Non eravamo pronti per affrontare una malattia così invalidante, abbiamo avuto difficoltà a comprenderla e poi spiegarla alla famiglia, quando noi stessi eravamo ignari di tante cose. L’accettazione della malattia è stata dura anche perché si tratta di una malattia rara, che ti pone tanti interrogativi. Poi nel caso di mio marito è stata molto rapida e aggressiva, causandogli malessere nello spirito oltre che nel corpo. A volte mi sono sentita in colpa perché stavo bene o perché volevo fare qualcosa, che però non si poteva fare perché stavo male. Dopo il trapianto la condizione di mio marito è migliorata, ma in passato il pensiero che la nostra vita fosse totalmente cambiata mi ha procurato tristezza e depressione.”
“Se dovessi sottolineare un aspetto del nostro vissuto direi quanto dolore si prova, dalla diagnosi in poi, nel vedere la persona che ci sta accanto soffrire fisicamente e mentalmente. È veramente una sofferenza grande. Come è grande la paura che incute l’aggettivo "ereditaria", il terrore che possa passare alle mie figlie è veramente una delle cose che mi spaventa di più. Inoltre purtroppo ci avevano dato dei "tempi" brutti in questa malattia e quei numeri per me sono stati, fino al trapianto, il primo pensiero della giornata e anche l'ultimo prima di addormentarmi. Oggi racconto la mia esperienza sperando possa essere utile anche ad altre famiglie, e spero di potermi mettere presto in contatto con l’associazione italiana che si occupa di questa malattia.”