Dror Or e Bilal Saleh erano accomunati dall’amore per le spezie, per il profumo della terra, per le bancarelle dei mercati, per i prodotti artigianali.

Dror era israeliano e Bilal palestinese. Vivevano a 150 chilometri di distanza ma le loro vite si erano sfiorate durante un viaggio in Italia. Da un anno non ci sono più e le loro morti sono simboliche dell’abisso in cui è caduta ogni speranza di pace e di convivenza.

Dror Or © beeridairy.co.il

Dror Or aveva 49 anni, produceva formaggi artigianali, viveva con sua moglie Yonat e tre figli nel kibbutz Be’eri. La loro casa è stata attaccata dai terroristi di Hamas il 7 ottobre dello scorso anno. Yonat è stata uccisa davanti a due dei figli Noam e Alma, di 17 e 13 anni, che sono stati rapiti e portati a Gaza. Anche Dror era stato colpito, e per molto tempo si è pensato che fosse tra gli ostaggi, e invece era morto subito, ma il suo corpo era stato portato via dai terroristi. L’intero kibbutz era stato distrutto, 132 persone erano state assassinate e 32 prese in ostaggio e portate a Gaza.

Noam e Alma sono stati liberati alla fine di novembre scorso durante il cessate il fuoco durato una settimana.

Dror Or, che aveva lavorato a lungo come cuoco nei ristoranti a Tel Aviv, era andato a vivere nel kibbutz dopo aver sposato Yonat che era cresciuta lì. Dopo poco tempo aveva cominciato a lavorare con gli amici Yacov Benacot e Dagan Peleg nel caseificio, avevano iniziato preparando feta, yogurt e formaggi freschi poi, nel tempo, si erano specializzati: erano stati in Francia per imparare, ed erano arrivati a produrre 16 diversi tipi di formaggi venduti in molte enoteche di Israele.
Il successo dei loro formaggi, la loro genuinità e artigianalità li aveva portati a partecipare alla fiera internazionale “Cheese” a Bra, e a Terra Madre.
Oggi il sito del caseificio si apre con questo ricordo: «Dror portava con sé la fantasia, gli odori e i sapori, era sempre alla ricerca di una nuova idea o di una spezia in ogni mercato e in ogni bancarella. Era un amico che trovava sempre il tempo per fermarsi, aprire una bottiglia di vino e poi ascoltare con pazienza e amore gli altri».

Bilal Mohammad Saleh ©Wafa.ps

Bilal Mohammad Saleh, 40 anni, la mattina del 30 ottobre dell’anno scorso stava raccogliendo le olive nella terra che aveva ereditato dal padre, poco fuori dal villaggio di Al-Sawiya, 18 chilometri a sud di Nablus, quando quattro coloni israeliani, provenienti da un confinante insediamento illegale, si sono avvicinati al suo campo e gli hanno ordinato di andarsene. Con Bilal c’erano la moglie Ikhlas, i quattro figli, Moosa (8 anni), Mais (9), Malak (13), Muhammad (14) e i suoi fratelli. Non era la prima volta che venivano minacciati, i loro alberi bruciati e le loro olive rubate. Sono scappati. I parenti raccontano che nella fuga Bilal ha perso il telefono, così è tornato indietro per prenderlo. La moglie dice che si era fermato per proteggere la famiglia.

Di certo c’è che uno dei coloni gli ha sparato nel petto. I fratelli sono tornati indietro, hanno preso la scala che stavano usando per salire sugli ulivi e l’hanno usata come barella per trasportarlo fino alla strada, lo hanno portato di corsa all’ospedale Salfit dove è stato dichiarato morto.
Bilal viveva facendo l’olio e raccogliendo fichi, timo, salvia e fichi d’india che poi vendeva al mercato di Ramallah. Insieme ad alcuni membri della sua comunità faceva parte dello Slow Food Nablus Convivium e con loro aveva viaggiato fino a Torino per partecipare a Terra Madre.

La storia di queste due persone mi è stata raccontata da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food. «Entrambi erano stati da noi due anni fa, erano venuti in pace, entrambi facevano parte di comunità che amavano i prodotti della terra, che credevano nei progetti di qualità e condivisione. Ora io penso a quei figli rimasti, che hanno assistito all’omicidio dei loro genitori, e non riesco a immaginare come nel loro futuro ci possa essere un’idea di dialogo».

di Mario Calabresi dalla newsletter Altre/Storie