Affamare i palestinesi aggravando le loro condizioni umanitarie è un’azione deliberata di chi sceglie di trasformare il cibo in uno strumento di guerra, e che non ha nulla a che vedere con il diritto di Israele a esistere. Da oltre un anno e mezzo, la Striscia di Gaza è sottoposta a un assedio pressoché totale. Mancano acqua e cibo, ma anche carburante e elettricità, anch’essi funzionali al soddisfacimento del bisogno primario di alimentarsi, rendendo edibili cibi che senza la cottura non lo sarebbero.

A chi sta dentro Gaza non resta altro che resistere, fino a quando le energie lo consentiranno. Il cibo è diventato una linea di confine sottilissima, tra la vita e la morte.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (un indicatore utilizzato a livello internazionale nell’analisi della sicurezza alimentare), tutti gli oltre due milioni di abitanti di Gaza vivono attualmente in condizioni di insicurezza alimentare acuta. Mentre quasi mezzo milione, di cui settantamila bambini, si trovano nella fase più acuta dell’indicatore, definita “fame catastrofica”. Si tratta di una pressoché certa condanna a morte. Dal 2 marzo scorso, l’assedio si è fatto ancora più implacabile: aiuti umanitari bloccati, prezzi dei beni essenziali alle stelle. Un sacco di farina è arrivato a costare oltre 400 dollari. I cereali, alla base dell’alimentazione delle persone in ogni angolo del globo, sono diventati un bene di lusso. Solo il 19 maggio, dopo undici settimane di chiusura totale, è stato consentito a nove camion di aiuti di entrare a Gaza. Un numero che fa gridare vergogna perché per soddisfare i bisogni di 2 milioni di persone ce ne vorrebbero almeno 500 al giorno di camion.

Dror Or e Bilal Saleh, due vite rubate alla pace

In mezzo a tante immagini e cronache di disperazione voglio però condividere la storia di due vite rubate alla pace, ma che hanno lasciato semi di consapevolezza, di impegno e di memoria. Le vite di Dror Or e Bilal Saleh sono il simbolo di un’umanità unita dalla vicinanza alla terra e che condivide la stessa sete di pace, dignità e futuro. Dror Or era israeliano e aveva 49 anni. Produceva formaggi artigianali in un kibbutz. Dopo aver lavorato come cuoco in diversi ristoranti di Tel Aviv decide di aprire un caseificio insieme ad alcuni amici i cui prodotti venivano offerti nelle migliori enoteche di Israele. Il 7 ottobre del 2023, la sua casa è stata attaccata da Hamas. Dror e la moglie vengono uccisi e i loro bambini rapiti.

Bilal Saleh di 40 anni era di origini palestinesi. Viveva vicino a Nablus e il 30 ottobre del 2023 stava raccogliendo le olive con la famiglia nei campi ereditati dal padre quando quattro coloni israeliani armati sono arrivati a intimargli di andarsene. Non era la prima volta che succedeva, ma è stata l’ultima per Bilal perché quel giorno un colone gli ha sparato al petto ferendolo a morte. Dror e Bilal appartenevano alla rete di Terra Madre e Slow Food ed erano venuti entrambi a Torino in occasione di Terra Madre Salone del Gusto. Due vite che a Torino forse si sono incrociate in nome della terra e della pace, divise geograficamente solo da 150 chilometri e da un muro d’odio che nessuno dei due aveva mai voluto. Dror era legato ad associazioni che promuovevano il dialogo tra israeliani e palestinesi. La sua memoria è il simbolo di tutti quegli israeliani che non si riconoscono in ciò che il loro governo sta perpetuando. La morte di Bilal è invece emblema dei crescenti atti violenti commessi per mani di coloni estremisti e rimasti impuniti. Due facce della stessa medaglia: vittime civili in un conflitto che distrugge la terra, le persone che la abitano e che la lavorano.

Dove si pianta un seme, cresce speranza di futuro

Da quarant’anni il cibo è il modo attraverso cui faccio politica e non mi arrenderò mai al fatto che il cibo diventi un’arma parte di una strategia bellica al pari delle bombe. Che poi, sotto le bombe, non muoiono solo le persone. Muore anche la biodiversità. I campi bruciati, le sementi perse, gli animali uccisi. La guerra spezza le comunità e con esse il legame più profondo che abbiamo con la terra. Ricordare Dror e Bilal è dunque un atto politico.

La pace non si costruisce dimenticando, ma riconoscendo l’umanità di ogni vittima. E allora tocca a noi, a chi ha ancora la possibilità di scegliere da che parte stare: con chi resiste alla violenza con l’umanità, con chi, anche in mezzo alle macerie, continua a coltivare. Perché dove si pianta un seme, dove cresce un albero, è meno immediato costruire un muro e continua a germogliare la speranza di futuro.

Carlo Petrini
da Millennium di giugno 2025