La parola processo è quella che meglio aiuta a comprendere questo Sinodo. È un dinamismo e non semplicemente un percorso che ha un inizio e una fine. Un dinamismo generativo che si inserisce all’interno di una realtà già data: la vita della Chiesa sparsa in tutto il mondo nella diversità dei contesti; e quella di questo tempo così complesso, incerto, disorientato. Un dinamismo che si fa strada, pur tra mille fatiche e contraddizioni, e genera cambiamento.
Forse non tutto in questo Sinodo ha risposto alle attese, non tutte le istanze sono riuscite a comporsi armonicamente. Ma questo Sinodo ci consegna una Chiesa che con coraggio si è interrogata su come essere segno e strumento di unità in questo mondo, disposta a riformare il proprio modo di pensarsi e di organizzarsi per essere più conforme al Vangelo. Il cammino che abbiamo vissuto è stato scandito da scelte di straordinaria forza simbolica: l’essere partiti dall’ascolto, l’aver coinvolto anche quanti si ritenevano lontani, il darsi tempo per fermarsi a discernere l’azione dello Spirito e i passi da compiere, l’interrogarsi insieme dando spazio al silenzio senza temere le tensioni o soffocare nella polemica la diversità delle sensibilità, l’avvertirsi tutti partecipi nelle differenti responsabilità e competenze senza soggezione alcuna nella circolarità della condivisione.
I tavoli dell’aula Paolo VI, qui a Roma, in queste due sessioni dell’Assemblea sinodale, sono l’immagine plastica del cambiamento già in atto. Sono stati l’esperienza viva di una Chiesa dalle diverse vocazioni e carismi, che da ogni popolo e nazione è radunata dallo Spirito; del suo multiforme volto che racconta una unità possibile nella infinita diversità accolta riconosciuta condivisa. Nella preghiera con cui abbiamo cominciato ogni giornata, nella proclamazione della Parola e nelle invocazioni, abbiamo udito le lingue più diverse volutamente non tradotte e, nel silenzio, abbiamo lasciato che risuonassero in noi, perché accogliere l’altro e il suo dono non vuol dire capire tutto.
Il mondo intero era qui: quello che non conosciamo abbastanza o per nulla, quello di cui non si parla o che volutamente dimentichiamo. Volti e storie che abbiamo imparato a conoscere nei dialoghi di questi giorni. La cattolicità della Chiesa che è nell’intimo articolarsi di unità e diversità l’abbiamo respirata. Forse mai ne abbiamo fatto esperienza come in questo Sinodo. È lo sguardo con cui leggere le relazioni che la Chiesa vive al suo interno, il rapporto con le culture, con i luoghi della terra nel trasformarsi dei loro confini, con le Chiese sorelle, con le differenti tradizioni religiose, con l’umanità tutta.
Non un’astratta universalità, ma la tessitura viva e concreta di relazioni nel reciproco scambio di doni. L’immagine del banchetto preparato da Dio per tutti popoli, icona biblica che ha guidato i lavori dell’assemblea, ben esprime il senso di una sinodalità che si fa segno profetico per un tempo lacerato da conflitti e contrapposizioni identitarie e attraversato da una profonda sete di comunione.
Commuove questa Chiesa disposta a rivedere le sue procedure interne a riarticolare i rapporti tra le diverse componenti e i differenti livelli perché la comunione possa fiorire nella corresponsabilità differenziata, nel discernimento e nella progettazione comunitaria, nel rendere conto in una cultura della trasparenza fatta di limpidezza del cuore e di valutazione condivisa.
L’Assemblea sinodale si è conclusa, ma non il Sinodo: questo straordinario processo che, sorretto dall’azione dello Spirito, si apre ora alla sua fase attuativa affidata al coraggio con cui sapremo dare corpo alla sinodalità come parola di speranza per la Chiesa e per tutti.
Articolo Pubblicato su Avvenire del 27 ottobre 2024