La scommessa della tinca: da pesce di recupero alle cucine degli chef

È stato uno dei primi Presìdi a venire avviato, quasi venticinque anni fa.

Ma se la tinca è un pesce «slow», come lo definisce l’allevatore Giacomo Mosso, che a Ceresole d’Alba le fa crescere nelle peschiere dove un tempo si raccoglieva l’acqua piovana per affrontare l’estate, il merito non è soltanto dell’associazione fondata da Carlo Petrini.

«La tinca è slow perché è ad accrescimento lento: impiega due anni per raggiungere i cento grammi di peso. D’inverno va in una specie di letargo, cresce solo nel periodo tra aprile e ottobre». Non il massimo per chi deve farne un business. E infatti, storicamente, «allevare la tinca è sempre stato un secondo lavoro, una fonte di reddito integrativo per le aziende agricole di quest’angolo di Piemonte che è il Pianalto di Poirino».

Terre argillose, utilissime per farci mattoni nelle tante fornaci che un tempo puntellavano la zona, ma che per essere coltivate avevano bisogno di acqua, più di quella naturalmente disponibile. E così, già nella prima metà del secolo scorso, i contadini si ingegnarono: costruirono le cosiddette peschiere, laghetti artificiali dove raccogliere l’acqua piovana e quella ottenuta dallo scioglimento della neve, utili per irrigare, per dissetare il bestiame, e perché no anche per fare il bucato. In queste grandi vasche, poi, pensarono bene anche di seminare le tinche.

«Conservo ancora i ricordi di quando ero bambino — dice Mosso —, si pescavano una volta sola, a settembre, quando l’acqua disponibile nelle peschiere cominciava a scarseggiare». Era una festa in tutto il paese, e non a caso la patronale si celebra proprio sul finire dell’autunno, nei giorni della tinca, e non a fine giugno, come vorrebbe il calendario quando si festeggia San Giovanni. Nella seconda metà del Novecento, le cose cambiarono: con l’arrivo delle trivelle per costruire i pozzi, le peschiere si svuotarono: tra i pochissimi, se non l’unico, a crederci è stato proprio Mosso, che sul finire del millennio ha scelto di scommettere sulla tinca.

«Volevo distinguermi, certo, ma soprattutto valorizzare un prodotto che era ormai dimenticato, che non esisteva quasi più, e che era stato anche il più tipico della zona» ricorda oggi. Partendo dalle due peschiere rimaste vuote nell’azienda dove allora coltivava mais, frumento e fieno, e sfidando chi nel Pianalto di Poirino voleva costruire discariche, ha riavviato la produzione.

Oggi ha quindicimila metri quadrati di acqua a disposizione e ogni anno produce quattro o cinque tonnellate di prodotto. Tradizione vuole che la tinca, dalla carne magra e fine, venga fritta, eventualmente poi marinata nel più classico dei carpioni. Ma il prodotto oggi ben si presta anche all’estro degli chef.

di Serena Milano, Direttrice di Slow Food Italia

da Corriere Torino del 31 agosto 2024