Il bosco è cura. Della terra, delle comunità e dell’anima.
Si capisce parlando con chi nel bosco ci è cresciuto e ha tracciato la propria strada. Come Delfino Maruca, cuoco calabrese dell’Alleanza Slow Food e castanicoltore.
«Se dovessi scegliere il mio spazio tra la cucina e il bosco sceglierei il bosco. Lavorare in cucina mi piace, ma i ritmi sono sempre affannati. Poi vado nel castagneto e mi passa tutto. Appena raggiungo la pensione mi dedico completamente alla terra che è la mia passione».
Da un castagno nasce tutto: la storia di Delfino e quella del suo ristorante. Il locale Il vecchio castagno prende il nome proprio dall’arbusto secolare che gli sorge davanti e sotto all’ombra del quale si davano appuntamento i suoi genitori da giovani, appena fuori dal bosco di castagni che era dei nonni di Delfino.
Siamo a Serrastretta, in provincia di Catanzaro. Un comune della Sila molto vasto, probabilmente abitato da più castagni e faggi che persone. 3700 abitanti a 850 metri d’altitudine. Qui, un tempo, la castanicoltura era la principale fonte di sostentamento economico: erano le castagne l’unità di riferimento per gli acquisti e la loro gestione e raccolta scandiva le vite della comunità.
Tanto che nel secolo scorso da Serrastretta partivano carichi di castagne dirette prima a Napoli e poi a Genova per essere imbarcate per l’America e consumate negli Stati Uniti nel Giorno del Ringraziamento. E, se i calabresi sanno bene che del maiale non si butta via niente, gli abitanti del luogo applicavano questa filosofia anche al legno di castagno che veniva impiegato in vari modi grazie alla sua resistenza. Delfino ricorda «ogni famiglia aveva il proprio castagneto, era sintomo di sviluppo. Serrastretta è anche conosciuto come il paese delle sedie grazie all’abbondanza di legno. I miei nonni, infatti, oltre ad avere i castagneti, erano sediari».
Oggi la castanicoltura di Serrastretta è il fantasma di ciò che era, una piccola aggiunta all’economia locale già molto provata dallo spopolamento. «Gran parte dei terreni sono abbandonati. Restano tre o quattro aziende agricole che provano a investire ma con mille difficoltà: si tratta di un prodotto stagionale e si sente l’assenza di un riferimento di tipologia oltre che di un buon collegamento stradale per il paese» denuncia Delfino.
«Noi non possiamo concorrere con le quantità prodotti in pianura varietà – continua – ma abbiamo la terra giusta per fare la qualità. Con impegno e attenzione possiamo fare un buonissimo prodotto. Le nostre castagne sono tardive e meno belle esteticamente rispetto ai marroni, più conosciuti e commerciali, ma bisognerebbe scoprire questa biodiversità perché regala frutti estremamente gustosi».
A Serrastretta non c’è mai stata una selezione di varietà ma ogni abitante conosce i pregi e gli impieghi migliori di tutte quelle locali. La lucente è la più diffusa. È molto dolce e si presta bene all’essiccazione nelle strutture in pietra che costellano i boschi della zona.
Le lucarelle vengono cotte al vapore e sono protagoniste di una lavorazione molto lunga ma che restituisce un dolce morbido e unico. «Al ristorante le serviamo come dessert, glassate con vino novello».
Le valdanare «sono squisitissime. Valda in dialetto vuol dire castagna cotta – racconta Delfino – e infatti veniva utilizzata per realizzare il pane locale, conosciuto come pane dei poveri» perché sostituiva il grano, più difficile da coltivare e reperire in queste zone.
Questi boschi non sono solo preziosi per il frutto che restituiscono, la loro importanza è vitale nella cura dell’ambiente e del paesaggio, oltre che come orizzonte possibile per contrastare lo spopolamento e occasione di sostentamento economico per la comunità.
I castagneti, racconta Delfino, «aiutano nel drenaggio dell’acqua senza chiedere nulla in cambio. Non hanno bisogno di una cura intensiva, non serve chimica, basta potarli. Manca però, e forse a buona ragione, chi desidera restare. Il calo di presenze umane è un problema, serve un investimento sociale ed economico sul territorio dell’entroterra da parte delle amministrazioni locali e nazionali. Molti, come ad esempio mio figlio Mattia, sono andati altrove a cercare opportunità di vita e il territorio ne ha risentito. Eppure resta qualche giovane che sta provano a investire sulle produzioni locali: loro sono la speranza per queste zone dimenticate».
Raccogliere castagne è una forma importantissima di cura della terra ma anche di sé «io curo tra questi alberi la mia mente. È una ricchezza enorme che vorrei fosse tutelata».
Delfino Maruca fa parte della rete Slow Food dei castanicoltori che coinvolge comunità, condotte, produttori, cuochi, tecnici, e mette al centro la rigenerazione delle Terre Alte attraverso la diffusione della castanicoltura tradizionale, con i suoi saperi, gli usi, le tecniche, cercando di definire azioni comuni per salvaguardare e riqualificare una risorsa che può tornare a essere strategica, offrendo nuove opportunità di sviluppo per i territori appenninici e alpini pedemontani.
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