Betlemme. Dove “Io sono l’altro” - Azione Cattolica Italiana

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Cara Azione Cattolica, provare a raccontare le emozioni o le sensazioni che si provano durante un conflitto è complicato, soprattutto se non le si prova in prima persona. Forse ciò che vi si avvicina di più è quello che abbiamo vissuto durante il periodo del Covid. Paura, frustrazione, timore, dubbi, incertezze, diffidenza. Quella sensazione di vivere quasi giorno per giorno.

Il periodo pandemico, a mio parere, permette a chiunque di comprendere, in parte, ciò che le persone vivono durante un conflitto. Certo, durante una guerra arrivano missili e proiettili, i rumori sono assordanti, la paura dietro ad ogni angolo, gli allarmi possono suonare in ogni momento, gli aerei volano incessantemente sopra la tua testa. Ma in guerra, come in pandemia, ci sono alcune cose che non possono fermarsi: non cessa la povertà, non cessa l’assistenza agli anziani o ai malati, non cessano le disabilità.

E anche qui a Betlemme l’assistenza ai disabili, agli orfani, agli ultimi tra gli ultimi non si è fermata. Sono cambiate, però, tante cose rispetto a prima. Durante la guerra, chi prima già soffriva, soffre ancora di più. E coloro che non hanno colpe, come i bambini, subiscono sulla propria pelle tutte le conseguenze di conflitti che spesso, nemmeno gli adulti, sanno perché nascono e a cosa servono.

Qui a Betlemme, fino al 7 ottobre, era un continuo via vai di pellegrini, turisti, volontari da tutto il mondo che venivano a dare una mano. Era pieno di palestinesi che portavano pane, riso, olio, pannolini, vestiti; o più semplicemente mettevano a disposizione un po’ del loro tempo per i bambini. La casa dove viviamo con i volontari era sempre inondata da odori di cibi provenienti da tutto il mondo, invasa dal suono di lingue diverse, risate, storie da raccontare e da ascoltare.

“B. indossa per una festa scolastica un abito raffigurante due simboli della Palestina:
la trama della Kuffiah e il Tatreez, tipico ricamo palestinese”

Prima del 7 ottobre si sperimentava, concretamente, la grande potenza della condivisione, quella sincera e senza limiti. Perché puoi anche non parlare arabo o inglese, ma un bambino che ti tende la mano e ti chiede di giocare è una lingua che tutti sanno parlare. Non serve parlare arabo per accettare un abbraccio o una carezza. Non serve parlare per comunicare, ma serve saper aprire il cuore e la mente per comprendere.

Donare la vita sarà sempre qualcosa che potrà arricchirci e mai toglierci qualcosa. Perché solo stando accanto agli altri si comprende che condividendo, la gioia si moltiplica e il dolore si riduce. Perché quando un bambino ti sorride e tu, come uno specchio, sorridi, stai moltiplicando la sua gioia. Poiché in due la gioia vale doppio, ma allo stesso tempo il dolore pesa la metà.

Io l’ho vissuto, e lo vivo, con i bambini e le loro disabilità. Ma non importa tramite chi o cosa sperimentiamo la condivisione e il dono di sé, purché lo facciamo nostro ogni giorno e poniamo l’altro sempre al centro delle nostre azioni. Perché solo così sapremo moltiplicare la gioia e dividere il dolore, solo così sapremo costruire la pace e distruggere la guerra, solo così sapremo accogliere l’altro e non allontanarlo.

Gesù diceva “ama il prossimo tuo come te stesso”. Kant scriveva “agisci in modo tale che la massima della tua volontà possa sempre valere, in ogni tempo, come principio di una legislazione universale”. Niccolò Fabi canta “Io sono l’altro”. Tutti modi diversi per dire che solo quando capiamo che l’altro, con le sue paure, desideri, sogni, errori, scelte, siamo noi stessi, allora non vi saranno più incomprensioni, lotte, ingiustizie.

Perché saremo tutti pari tra pari, esseri umani tra esseri umani. Solo così capiremo che non possiamo giudicare l’altro se non giudichiamo noi stessi allo stesso modo. Che possiamo sbagliare tanto quanto può sbagliare l’altro. Che la mia libertà trova in suo limite quando incontra quella dell’altro.Che l’altro “il tuo stesso mare lo vede dalla riva opposta” (N. Fabi). Che non c’è distinzione tra le vittime, ma solo dolore. Solo così cadranno tutti i muri, cesseranno le guerre, si costruiranno ponti e non barriere.

Se è vero che non serve viaggiare fin qui per capirlo, credo sia però in questa terra che io l’ho capito realmente. Qui dove c’è veramente chi non ha nulla; eppure, dona tutto sé stesso per gli altri o per difendere la propria terra quando sarebbe molto più facile andarsene. Una terra dove c’è chi non può muoversi liberamente, eppure ha visioni più ampie di chi il mondo può vederlo senza restrizioni. In questa terra ho scoperto che i conflitti nascono proprio quando si disumanizza l’altro, quando lo si vede come diverso. Si smette di condividere e apprezzare le differenze e si inizia a combattere, a rubare terre e diritti, a costruire muri per tenere qualcuno dall’altra parte.

Allora, cara AC, tu che sperimenti ogni giorno l’accoglienza e la comprensione dell’altro; che cammini assieme ai bambini dell’ACR, ai giovani, agli adulti; che porti aiuto agli ultimi della nostra società, ti impegni nella formazione e ti interessi di tutto quello che è giusto; fallo sempre con la convinzione che solo cosi potremo moltiplicare la gioia e dividere il dolore, solo cosi sapremo moltiplicare le vite e non distruggerle, solo ricordandoci che siamo l’altro potremo davvero dare sapore ad ogni nostro gesto e sapremo portare luce nel cuore degli altri. E credimi, cara AC, i cuori di molti non sono mai stati così bui.

Elia Giovanni è lo pseudonimo di un socio dell’AC che, ormai da un paio d’anni, in forma sempre più stabile, vive in Terra Santa. Per motivi legati al suo permesso di soggiorno e alla sicurezza delle persone, organizzazioni e realtà di cui leggeremo nelle prossime corrispondenze, preferisce non rendere pubbliche le proprie generalità né condividere la propria foto (o immagini troppo specifiche di tutte le persone che possono essere a rischio).

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Elia Giovanni