Il cervello di Micio invecchia come il nostro: lo rivela una nuova ricerca scientifica - News Petme

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Un recente studio pubblicato sul “Journal of Neuroscience” mostra come il tempo lasci segni simili sui cervelli degli animali e degli esseri umani, offrendo spunti per comprendere meglio patologie neurodegenerative legate all’età. I gatti, protagonisti dello studio, mostrano affinità inaspettate con l’uomo, aprendo nuovi orizzonti nella lotta contro l’Alzheimer

Le malattie legate all’invecchiamento cerebrale, come la demenza e l’Alzheimer, colpiscono oltre 50 milioni di persone nel mondo. Nonostante i progressi scientifici nella prevenzione e nella cura di queste patologie, restano da chiarire molti aspetti per comprendere le cause dei problemi legati all’età.

Per comprendere meglio questi processi, sono stati condotti numerosi studi scientifici alla ricerca di modelli utili per esplorare le origini e lo sviluppo delle malattie neurodegenerative. Tra questi studi, uno ha analizzato 150 specie di mammiferi nell’ambito del progetto “Translating Time”, focalizzandosi inizialmente sui topi.

I riscontri ricevuti dalle analisi sui topi tuttavia, non si sono rivelati particolarmente efficaci sollevando dubbi sulla possibilità che questi animali non sviluppino determinate patologie a causa del loro ciclo vitale, nettamente più breve rispetto a quello umano. Secondo quanto evidenziato da Elaine Guevara della Duke University di Durham, in North Carolina: “La discrepanza evolutiva tra topi e uomini potrebbe essere uno dei motivi per cui gli sforzi per trovare cure per la malattia sono spesso falliti. I topi non sviluppano i classici tratti distintivi della malattia di Alzheimer e i loro cervelli sono piuttosto diversi dai nostri”.

Oppure, come spiega la neurobiologa comparata presso la Kent State University in Ohio, Melissa Edler: “I topi potrebbero avere meccanismi che gli esseri umani non hanno e che servono per eliminare grumi di proteine mal ripiegate, le cosiddette placche, che sono un tratto caratteristico della malattia di Alzheimer”.

Ed è proprio a seguito di queste considerazioni che si è iniziato a spostare il focus sugli animali da compagnia, in particolar modo sui gatti, solitamente più longevi dei cani.

Gli scienziati del “Catage Project” hanno avviato lo studio comparando l’età dei gatti a quella umana, dimostrando che nel primo anno di vita un felino domestico raggiunge la maturità cerebrale di un diciottenne, mentre nel secondo anno è paragonabile a un 22enne.

Per ottenere risultati significativi da inserire nella ricerca si è quindi spostato il focus su esemplari di 15 anni, paragonabili ad un nonno di circa 80 anni, dimostrando innanzitutto che i gatti, proprio come noi, accumulano grumi di proteine anomale tipiche dell’Alzheimer e che anche i nostri amici a quattro zampe sono soggetti ad un declino cognitivo, causato da mutamenti cerebrali come l’atrofia. “Alcuni gatti sperimentano un declino cognitivo a quell’età, e le scansioni cerebrali raccolte dal gruppo di ricerca rivelano cambiamenti nel volume cerebrale nei gatti più anziani che rispecchiano quelli osservati negli esseri umani più anziani”, racconta Christine Charvet, la neuroscienziata che ha guidato la ricerca.

Per quanto significativi, i risultati ottenuti fino ad ora rappresentano solo un punto di partenza. Gli scienziati intendono estendere la ricerca ad altre specie per comprendere meglio i meccanismi dell’invecchiamento cerebrale e la loro correlazione con le patologie degenerative. Questo approccio comparativo potrebbe rivelare indizi chiave per sviluppare trattamenti più mirati ed efficaci e sconfiggere così alcune delle malattie più diffuse al giorno d’oggi.

Nel frattempo, queste scoperte rafforzano l’idea che tra noi e i felini esistano analogie più profonde di quanto si pensasse. Se vi è mai capitato di notare comportamenti simili tra voi e il vostro gatto, ora avete una base scientifica per credere che, in qualche modo, condividiamo più di quel che sembra. Siamo uniti da un legame che va oltre la semplice convivenza e che è radicato nei nostri DNA.

Foto: IPA

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Pietro Santini