Le due molecole, individuate grazie a sofisticate tecnologie di analisi di dati clinici e biochimici, sono state testate su modello animale con effetti promettenti
Dall’integrazione tra biologia molecolare, intelligenza artificiale e big data potrebbe arrivare una svolta inattesa contro l’Alzheimer. Un team di scienziati dell’Università della California di San Francisco e dei Gladstone Institutes ha identificato due farmaci antitumorali potenzialmente in grado di invertire alcuni dei danni cerebrali causati dalla malattia. I risultati, pubblicati a luglio sulla rivista Cell, mostrano che la combinazione di letrozolo (impiegato per il trattamento del tumore al seno) e irinotecano (usato nei tumori del colon e del polmone) ha ridotto la neurodegenerazione e ripristinato la memoria in un modello murino della malattia.
CHE COSA È LA CONNECTIVITY MAP
La scoperta si basa su un metodo innovativo che incrocia dati biologici e clinici su vasta scala. I ricercatori hanno analizzato tre importanti set di dati pubblici contenenti informazioni sull’espressione genica di cellule cerebrali prelevate da persone decedute, con o senza Alzheimer. Lo studio si è concentrato in particolare su neuroni e cellule gliali, due popolazioni cellulari chiave che subiscono alterazioni durante la progressione della malattia. L’obiettivo era individuare i cambiamenti molecolari distintivi dell’Alzheimer e cercare farmaci capaci di ‘invertire’ quelle specifiche firme genetiche.
Per farlo, il team ha poi consultato il Connectivity Map, una vasta banca dati che raccoglie gli effetti sull’espressione genica di oltre 1.300 farmaci testati su cellule umane. Il confronto ha permesso di individuare 86 molecole potenzialmente capaci di invertire l’effetto dell’Alzheimer su una singola popolazione cellulare e 25 molecole attive su più tipi di cellule: dieci di questi farmaci erano già approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense per diverse patologie.
L’IMPORTANZA DI POTER STUDIARE I DATI DELLE CARTELLE CLINICHE
A questo punto è entrato in gioco un altro tassello fondamentale dello studio: l’analisi dei dati clinici reali. Attraverso l’UC Health Data Warehouse, che raccoglie le cartelle cliniche anonime di oltre 1,4 milioni di persone sopra i 65 anni, i ricercatori hanno verificato se tra i pazienti che avevano assunto alcuni dei farmaci individuati vi fosse una minore incidenza di Alzheimer nel lungo periodo. La risposta è stata affermativa per un ristretto numero di molecole, tra cui letrozolo e irinotecano, da tempo autorizzati in ambito oncologico.
Una volta identificati i due candidati più promettenti, i ricercatori li hanno testati in laboratorio su topi geneticamente modificati per sviluppare una forma particolarmente aggressiva di Alzheimer. I risultati sono stati incoraggianti: la combinazione dei due farmaci ha ridotto la formazione di aggregati proteici tossici, migliorato l’espressione genica nei neuroni e nelle cellule gliali, rallentato la degenerazione cerebrale e ripristinato la memoria nei test comportamentali condotti sugli animali.
L’aspetto più interessante di questo approccio è che si basa su farmaci già approvati per l’uso umano, il che potrebbe accelerare in modo significativo i tempi di eventuale sperimentazione clinica per l’Alzheimer. In un contesto in cui lo sviluppo di nuove terapie contro questa patologia ha incontrato ripetuti fallimenti, con tassi di insuccesso superiori al 90% nei trial clinici, il riposizionamento di molecole esistenti potrebbe rappresentare una strategia più efficace e sostenibile.
Ma la vera innovazione dello studio risiede nel metodo utilizzato: la combinazione di dati molecolari e clinici, elaborati da sofisticati algoritmi computazionali, ha permesso di ridurre progressivamente il campo d’azione da oltre 1.300 farmaci a due specifiche molecole, già disponibili sul mercato e potenzialmente utili per milioni di pazienti.
NEL FRATTEMPO ABBIAMO ANCHE UN ORGANOIDE CEREBRALE UMANO
Il campo della ricerca sull’Alzheimer si sta muovendo con crescente intensità anche in altre direzioni. Un altro studio condotto di recente da un team della Johns Hopkins University, riporta lo sviluppo di un organoide cerebrale umano multi-regionale, una sorta di ‘mini-cervello’ tridimensionale, dotato di vasi sanguigni rudimentali e attività elettrica. Questo modello, ancora sperimentale, potrebbe in futuro offrire una piattaforma preziosa per lo studio di malattie complesse come Alzheimer, schizofrenia e autismo, superando i limiti dei modelli animali.
Nel complesso, il panorama della ricerca sull’Alzheimer sembra avviarsi verso una fase nuova, in cui l’uso di tecnologie computazionali, modelli biologici avanzati e grandi dataset clinici sta già portando a nuove interessanti proposte.