1° dicembre, 6 di mattina.
Intorno a me è tutto buio, una città intera desidera dormire ancora un po’ e un timido sole fatica a sorgere. Sono in stazione a Corinto e aspetto il treno che mi porterà in aeroporto. È già ora di partire, due mesi sono trascorsi e il mio tirocinio è terminato.
Qualche ora più tardi invece ci sarà mia mamma a Venezia ad attendermi. Mentre poi a casa troverò mio papà concentrato nell’impiattamento di un risotto, su cui – a detta di mio fratello – è stato impegnato tutta la mattina.
Sono frastornata e non lo nascondo. Nell’abbracciare mia mamma, lacrime che fino a quel momento avevo trattenuto, iniziano a rigare il mio viso. E così continuano a farlo ad intervalli irregolari per tutta la giornata.
È una sensazione strana perché in ogni azione che compio, in ogni singolo gesto di cura ricevuto, in ogni cosa che a poco a poco torna ad essere famigliare, non riesco a togliermi dalla testa il volto delle persone che in questi due mesi hanno incrociato il mio cammino. E per le quali tutto ciò che io ho sempre dato per scontato, non lo è.
Ho trascorso gli ultimi sessanta giorni in una realtà parallela, dove mi sono sentita così diversa, ma allo stesso tempo così simile. Storie di vita opposte, lingue e culture differenti, ma una necessità impellente di concretezza comune alla mia.
Più ascoltavo i desideri e le speranze per il futuro delle persone che incontravo, più comprendevo quanto fossero simili ai miei. Ancor più ascoltavo i loro sogni, più mi nutrivo di quella straordinaria semplicità che faceva da sfondo ad essi. Più trascorrevano i giorni e più realizzavo quanto la cosa più bramata da tutti fosse una normalità tradotta in molteplici modi.
Qualsiasi discorso a riguardo rischia di farmi scivolare nella retorica più scontata, e lungi da me il volerlo fare. Ma non riesco a trovare una modalità di espressione differente nel cercare di esprimere che il denominatore comune alla base dei loro desideri fosse la libertà: di pensare, agire, programmare, scegliere.
Di questi mesi custodisco i sogni più disparati. Come quello di partecipare ad una celebrazione del Santo Padre in Vaticano e incontrare la comunità Sant’Egidio, o quello di assistere ad una partita del Barcellona al Camp Nou. Porto poi con me il desiderio di vivere “in a real estate”, ovvero in un quartiere residenziale circondato da vicini di casa, di poter diventare ingegnere o cuoco. Ho di fronte a me gli occhi di chi mi ha raccontato di voler essere la versione migliore di sé stesso così da poter aiutare gli altri.
E più ripenso ad ogni singola speranza, più mi accorgo di quanto alcune di queste siano le speranze di tutte le persone che mi circondano anche qui in Italia. Ma sono in primis le mie speranze. L’“unica” differenza è che io tra le mani ho uno dei passaporti più forti al mondo che mi permette di entrare senza visto in 192 paesi su 227 e che mi ricorda ancora una volta quanto spostarsi non sia un diritto universale, bensì un privilegio. E poi ho l’immensa fortuna di essere nata in un luogo che mi dà gli strumenti e le possibilità di realizzarmi pienamente.
Credo che i sogni abbiano a che fare con la parte più intima di una persona.
Io li ho sempre immaginati custoditi in una sfera recondita di noi così da essere protetti. A volte impiegano più tempo per emergere, alle volte giacciono lì per sempre, ma ovunque siamo, loro sono e non cessano di essere. E condividendone l’essenza, prendono quasi forma.
Papa Francesco nell’enciclica “Dilexit nos” afferma che il cuore sia la radice di “tutte le forze, convinzioni, passioni, scelte” e siccome “sognare” vuol dire anche attendere, in questo periodo di attesa che è l’Avvento, sarebbe bello se custodissimo nel cuore i sogni che ho raccontato a voi e tutti quelli che non sappiamo. Con l’augurio che prima o poi possano davvero librare nel cielo e concretizzarsi.
3 dicembre, 6 di sera.
Mentre siedo sul divano di fronte al camino di casa mia, nella mia testa riecheggiano sempre più forti le parole della canzone “Il costume da torero” di Brunori Sas:
“Non sarò mai abbastanza cinico
da smettere di credere
che il mondo possa essere
migliore di com’è
Ma non sarò neanche tanto stupido
da credere che il mondo
possa crescere se non parto da me”
E allora mi faccio una promessa. Non dare mai per scontato il privilegio che ho e non scordare che, in virtù di questo privilegio, ho il dovere nel mio piccolo di agire. Di essere quella goccia in mezzo all’oceano che sommata alle altre prova a far sì che quei sogni condivisi non smettano di germogliare e crescere. E infine che il mio cuore possa fare sempre più spazio ai desideri dell’altro.
Chiara Mainente ha 24 anni e ed originaria della diocesi di Vicenza. Frequenta il secondo anno del corso magistrale in Sviluppo Globale e Cooperazione Internazionale, presso l’Università di Bologna. Grazie all’Erasmus+, il programma di mobilità promosso dall’Unione Europea, il 29 settembre è arrivata in Grecia per svolgere un tirocinio della durata di due mesi presso uno dei centri coordinati dalle ong La Luna di Vasilika, One Bridge to e Aletheia.