TROPPE DIVISIONI IN EUROPA. INTERVISTA A PIERO CIPOLLONE- BCE - Format Research

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 9 gennaio 2025

Intervista di Piero Cipollone al Corriere della Sera condotta da Federico Fubini

Cipollone (Bce): «Europa, troppe divisioni, ma può vincere la sfida tech. La Bce non freni l’economia»

Piero Cipollone, una carriera in Banca d’Italia fino al ruolo di vicedirettore generale, lunghe esperienze americane a Stanford, Berkeley e ai vertici della Banca mondiale, ha preso il posto di Fabio Panetta nel comitato esecutivo della Banca centrale europea. Panetta ora guida la Banca d’Italia, mentre a Francoforte Cipollone segue gli stessi progetti del predecessore, incluso l’euro digitale. Ma entrambi sono egualmente preoccupati dalla debolezza dell’economia nell’area euro.

Dottor Cipollone, i grandi Paesi europei sembrano in una crisi strutturale dell’industria e perdono terreno sugli Stati Uniti. Che succede?
«Non vorrei che stessimo abbaiando all’albero sbagliato. Davvero vogliamo competere con la Cina sul prezzo del manifatturiero? Secondo alcuni studi, anche se mettessimo dazi al 100% sulle auto cinesi, non riusciremmo lo stesso a vincere sul prezzo. Del resto, anche gli Stati Uniti oggi producono meno auto rispetto all’Europa».

Allora qual è il punto?
«Guardiamo ai settori che spiegano il divario di produttività tra l’Europa e gli Stati Uniti e che ci indeboliscono nella concorrenza con la Cina: tecnologia e finanza. E non è sufficiente adottare le soluzioni sviluppate da altri, è importante essere anche in grado di competere in questi settori. Se un’impresa europea adotta alte tecnologie come l’intelligenza artificiale, produrrà di più a parità di input di lavoro. Ma probabilmente questo incremento non si trasformerà in maggiore valore aggiunto. Infatti, a fornire quelle soluzioni alle imprese europee spesso è un monopolista delle Big Tech americane e probabilmente sarà lui ad appropriarsi di quell’aumento di produttività fisica aumentando il prezzo dei servizi. Il che alza i costi di produzione e riduce il valore aggiunto delle imprese europee».

Vuole dire che in Europa dobbiamo innovare di più?
«Per numero di brevetti gli europei e le università europee non sono indietro agli Stati Uniti. Poi però i nostri inventori o realizzatori vanno lì. Vediamo in questi mesi alcune delle nostre principali imprese innovative trasferirsi negli Stati Uniti e beneficiare della dimensione del mercato del prodotto, della scala dei mercati finanziari e del capitale di rischio americani. In Europa stiamo perdendo la corsa alla frontiera e alla scalabilità, ragioniamo troppo in ottica difensiva e nazionale. Per questo abbiamo iniziato a perdere terreno con la svolta di Internet alla fine del ‘900 e il prossimo scalino rischia di essere l’intelligenza artificiale».

Come se ne esce?
«Gli europei non sono meno capaci. Ma bisogna pensare che nell’attuale ondata di innovazione il costo marginale del prodotto è zero. Per chi detiene una scoperta di software, per esempio, aumentare l’offerta da uno a un miliardo di clienti è per molti aspetti gratis. Quindi se ha un mercato di riferimento molto ampio – come, per esempio, gli Stati Uniti o la Cina – quell’operatore cresce molto e molto in fretta. Il problema dell’Europa è qui: non abbiamo un mercato unico compiuto, sia per i beni e i servizi che per il mercato dei capitali. Una stima del Fondo monetario internazionale dice che la frammentazione interna all’Unione europea equivale a subire dazi del 44% sui beni e del 110% sui servizi».

Dunque difendere le vecchie eccellenze industriali dei Paesi europei è una battaglia di retroguardia?
«Per farlo dobbiamo innovare e coniugare la tradizione con l’innovazione, investendo e uscendo da una visione mercantilistica. Mentre lamentiamo perdite di competitività dell’area dell’euro abbiamo un surplus di bilancia delle partite correnti vicino al 3% del Pil. Questo significa che, al netto, investiamo 435 miliardi di euro meno di quanto risparmiamo nell’area dell’euro. Se investissimo quel 3%, avremmo metà dei fondi stimati da Mario Draghi per l’attuazione del suo piano e potremmo salvaguardare il futuro dell’Europa come base produttiva».

Parla degli investimenti da 800-900 miliardi l’anno?
«I soldi ci sono, le università che producono cervelli e idee anche. Si tratta di saper usare la profondità del nostro mercato interno per fare quel che fanno gli Stati Uniti. Non abbiamo ancora accettato che i singoli Paesi europei non hanno più la scala adatta per confrontarsi con i leader mondiali.
Viene da pensare alla situazione politica dell’Italia del ‘400; mentre i francesi, gli spagnoli e gli inglesi formavano grandi Stati unitari, l’Italia restava divisa in tante piccole unità territoriali e nonostante le competenze, la ricchezza e la cultura è rimasta indietro. Oggi dipende solo da noi, noi europei».

Alla Bce siete rimasti sorpresi dalla debolezza dell’economia dell’area euro?
«Da giugno lo staff ha rivisto al ribasso le stime del PIL tre volte. Fra il 2024 e il 2026 la revisione cumulata dà quasi un punto percentuale di prodotto interno lordo in meno. E le stime attuali considerano solo parzialmente l’incertezza legata alla futura politica commerciale americana. Questo porta molti operatori a restare alla finestra».

Avete delle previsioni su cosa farà Donald Trump?
«È difficile quantificare l’impatto preciso, perché non sappiamo nel dettaglio come metterà in atto il suo programma. Certo, come dicevo, proprio questa incertezza può frenare gli operatori e non fa certo bene alla dinamica degli investimenti e dei consumi».

Spiega così la debolezza economica in area euro oggi?
«In effetti ci ha sorpreso soprattutto la lenta ripresa dei consumi. Ce l’aspettavamo più veloce, invece le famiglie risparmiano».

Perché?
«Il loro reddito disponibile in media è cresciuto, ma il contributo dei redditi da lavoro è stato relativamente limitato. Sono cresciuti gli interessi, i profitti, le rendite, i rendimenti di borsa, le attività reali: fonti di reddito meno liquide, che non arrivano direttamente nelle tasche. E sono concentrate nei ceti più abbienti, mentre nei redditi più bassi alcune categorie, che avevano visto una riduzione della loro ricchezza e avevano dovuto attingere alle riserve per mantenere il tenore di vita durante la pandemia e lo choc energetico, provano adesso a ridurre il loro indebitamento e a ricostituire i loro risparmi».

E gli investimenti?
«Sono calati nel 2024 e cresceranno poco nel prossimo triennio. A fronte della debole domanda e dell’elevata incertezza, le imprese esitano a investire. Alla fine del nostro periodo di previsione, nel 2026, risultano sotto ai livelli del 2023 in proporzione al Pil. Malgrado i grandi investimenti pubblici, legati per esempio ai Piani nazionali di ripresa.
Ma come portiamo l’intelligenza artificiale nelle fabbriche o negli uffici se non investiamo? Perciò dico che tenere la domanda bassa nel tentativo di garantirci contro futuri choc di inflazione secondo me, oggi, è controproducente. Un’ulteriore erosione del nostro potenziale economico aumenterebbe la pressione inflazionistica, invece di ridurla».

Cosa deve fare la politica monetaria della Bce?
«Secondo me non deve cercare di assicurarsi all’eccesso contro eventuali choc futuri d’inflazione. Deve cercare di far camminare l’economia al suo potenziale, senza forzarlo perché ciò potrebbe far salire le aspettative di inflazione. Ma tenere l’economia sotto al potenziale la indebolisce e toglie spazio proprio per reagire agli choc quando si verificano. Avere un limite di velocità più alto, con una crescita reale del Pil coerente col suo potenziale e una crescita dei salari coerente coi guadagni di produttività, aiuta ad assorbire i problemi futuri sulla dinamica dei prezzi con meno stress».

I recenti aumenti del prezzo del gas avranno un impatto sull’inflazione?
«Le nostre previsioni di dicembre ipotizzano già un prezzo del gas per il 2025 più alto del 25% rispetto a quello medio del 2024; per gli anni successivi si prevede una graduale discesa. Al momento i futures sembrano indicare prezzi un po’ più alti nei prossimi mesi. In marzo aggiorneremo le previsioni e valuteremo l’impatto sull’inflazione di medio e lungo periodo».

Il blocco delle riserve russe in euro porterà certi Paesi emergenti a diffidare dell’euro come valuta di riserva? 
«L’euro conta per circa il 20% delle riserve internazionali, mentre l’area euro pesa per circa il 12% del Pil mondiale. Significa che all’euro è riconosciuto un valore intrinseco che va oltre la quota di mercato dell’area euro nell’ economia globale. Ma dobbiamo garantire che l’euro continui ad essere usato nelle transazioni internazionali e come moneta di riserva».

È anche per questo che lavorate all’euro digitale? 
«L’euro digitale ha una dimensione interna e serve a rafforza l’autonomia strategica dell’area dell’euro. I pagamenti sono un buon esempio di un settore dove non sfruttiamo la scala europea e dipendiamo da imprese estere, oggi americane e domani anche cinesi.
Con la digitalizzazione che marginalizza il contante (oggi è usato in poco più del 40% delle transazioni) i cittadini europei non hanno più un mezzo di pagamento universalmente accettato nell’area dell’euro. Siamo in prima linea nel difendere la libertà per chiunque di usare il contante quando vuole, nei limiti di legge di ciascun paese; però di fronte all’espansione del commercio on line, che oggi assorbe circa il 36% valore delle transazioni per acquisiti, è necessario aggiungere per i cittadini europei l’opzione di un “contante digitale” semplice da usare e che permetta di effettuare pagamenti in tutta l’area dell’euro; altrimenti continueremo a dipendere da fornitori stranieri per qualsiasi acquisto con carte o con i cellulari.
Oggi quando usiamo una carta, due volte su tre ci serviamo di un operatore non europeo. Questa dipendenza si riflette spesso in commissioni più alte a carico dei commercianti e, in ultima analisi, dei consumatori europei».

Cosa pensa delle stablecoin? 
«In futuro, l’euro digitale permetterà di proteggere l’uso della nostra moneta – e quindi la nostra indipendenza – anche rispetto alle stablecoin, che sono ora principalmente basate sul dollaro. In più, l’euro digitale fornirà un’infrastruttura alle imprese europee che permetterà loro di offrire in tutta l’area dell’euro non solo i servizi tradizionali, ma anche quelli più innovativi basati sui ‘pagamenti condizionali’: per esempio le banche europee potrebbero sviluppare soluzioni con una clausola di rimborso digitale automatico al cittadino nel caso in cui una impresa fornisca un servizio in ritardo.
La possibilità di competere sul mercato interno con più forza grazie all’infrastruttura fornita dall’euro digitale e alle connesse innovazioni di prodotti e servizi, rafforza gli operatori europei e li mette in condizioni di offrire questi loro servizi anche nel resto del mondo, come fanno ora quelli di altre giurisdizioni. Anche questo è un modo per difendere il ruolo dell’euro».

(TROPPE DIVISIONI IN EUROPA BCE – Foto da Pexels)

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