Francesco Zanin Storia di un sogno americano – YesWeCollege

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«In Italia giocavo da cinque anni e mezzo nelle giovani della Sampdoria. Sono partito dagli Esordienti, arrivando fino agli Allievi Nazionali. Ho avuto la fortuna di essere stato allenato da nomi importanti, come ad esempio Guido Bistazzoni, persone che hanno formato portieri di grande talento del calcio italiano. Mi hanno insegnato un sacco di cose: all’inizio pensavo che il portiere dovesse solo stare in porta e non far segnare gli altri, ma in realtà c’è un mondo dietro quel ruolo. Così mi sono appassionato al calcio ancora di più. L’unica cosa che non è stata dalla mia parte è l’altezza. Non sono molto alto, almeno per un portiere, e questo mi ha tagliato fuori. Anche se compensavo con altre abilità, ad esempio sapevo giocare molto bene con i piedi, sono diventato la riserva di Wladimiro Falcone, che adesso è titolare al Lecce, in Serie A. Gli ultimi due anni alla Sampdoria ho iniziato a stare in panchina ed ero frustrato. Mentre a scuola, non è che fossi stupido, semplicemente non avevo molta voglia di studiare dopo gli allenamenti, ero stanco e volevo vedere i miei amici. Infatti, ho perso un anno. Poi ho cambiato scuola: ho iniziato a fare grafica e mi sono diplomato. E nell’anno della maturità sono venuto a sapere di Yes We College».

Veneto di nascita, ligure d’adozione, Francesco Zanin viene formato e muove i propri passi nel calcio italiano in uno dei settori giovanili di maggiore blasone d’Italia, quello della Sampdoria. Nei cinque anni e più durante i quali indossa i colori blucerchiati la sua passione per il calcio cresce, ogni giorno di più, ma lo limita un’altezza ritenuta non sufficiente per un portiere. La frustrazione per una situazione difficile, però, non lo frena. Anzi. Così arriva il momento di mettersi nuovamente in gioco: dopo aver lasciato la sua città natale, Venezia, per trasferirsi a Genova, ora è tempo di cogliere nuove opportunità, per costruirsi un futuro fino a quel momento inedito. È il momento di guardare agli Stati Uniti.

«L’opportunità di andare a fare uno Showcase con Yes We College è arrivata in un periodo in cui ero un po’ indeciso sul da farsi. Mi sono recato al camp, anche se ero un po’ titubante, perché non sapevo bene a cosa stessi andando incontro. Dopo lo Showcase, insieme a Nicolò Baudo, il founder di Yes We College, abbiamo preparato il mio profilo e alcuni video da presentare ai vari coach. C’era solo un problema: il mio inglese. Non ero molto bravo a parlare inglese, anzi, pertanto avrei avuto una scelta un po’ limitata relativamente alle università. Ad ogni modo, mi ha chiamato un ateneo del New Jersey, Mercer County Community College».

Dalla Liguria vola nel New Jersey, Stato della East Coast che ospita la tranquilla cittadina di West Windsor, nella quale, oltre al Mercer County Community College, è presente una statua che commemora “La guerra dei mondi”, un famosissimo sceneggiato radiofonico interpretato da Orson Wells, che nel 1938 narrando un presunto sbarco alieno sulla Terra, proprio nella placita località a un’oretta dall’Oceano Atlantico, terrorizza tutta America. Di alieni nel New Jersey Francesco non ne incontra, però i primi tempi non fatica a sentirsi un marziano.

«All’inizio è stato un po’ traumatico, perché andare negli Stati Uniti è un cambiamento totale. Persone, posti, cultura: è tutto diverso. D’altronde, sei dall’altra parte del mondo. E io non ero mai stato per così tanto tempo, così tanto lontano da casa, dalla mia famiglia e dai miei amici. Inizialmente ero spaventato all’idea di dover stare in America quattro anni, di andare all’università e dover passare degli esami per non avere problemi con il mio visto da studente. E poi sono andato negli Stati Uniti senza sapere l’inglese: i primi tempi in New Jersey, magari quando ero in mensa, mi parlavano e non capivo quasi niente. In Italia studiamo molto la grammatica, ma in America parlano un’altra lingua. Mi dicevo: “Cosa stanno dicendo questi qua? È inglese, o è una nuova lingua che devo imparare da zero?”. Ero disperato. Però ho avuto fortuna: ero l’unico italiano. E quindi mi sono buttato, ho dovuto essere meno timido per imparare la lingua. Tanto agli americani piace la pronuncia italiana, e poi l’inglese lo impari parlando. Così, settimana dopo settimana, mi sono ambientato sempre di più».

Una barriera linguistica è una difficoltà paradossale: il miglior modo per abbatterla è proprio parlare. Pertanto, invece di chiudersi in sé stesso, Francesco si apre alla nuova realtà che ha dinnanzi, mentre le porte del Mercer County Community College si spalancano per accoglierlo e fornirgli gli strumenti di cui necessita per migliorare il suo inglese.

«Dopo l’esame di ammissione ho iniziato l’università, ma nel primo semestre seguivo solo corsi ESL, English Second Language, delle lezioni per studenti internazionali che dall’estero arrivano nelle università americane senza avere un livello di inglese adeguato a frequentare i corsi universitari che ti permettono di guadagnare i crediti per poterti laureare. Queste lezioni mi hanno aiutato a sbloccarmi con l’inglese, a migliorare pian piano: ho iniziato a guardare film e serie tv in lingua e, soprattutto, a fare amicizia con i miei compagni di corso e di squadra. E così mi sono inserito».

Ovviamente, nell’ateneo di Mercer County si parla anche un’altra lingua, universale, presente in tutto il pianeta: alle nostre latitudini si chiama calcio, oltreoceano soccer.

«Quando sono arrivato non mi aspettavo granché, ma in realtà, nonostante quel che viene detto, il livello dei campionati universitari americani si sta alzando: c’è sempre più talento, anche perché ci sono sempre più studenti-atleti che provengono da tutto il mondo e che hanno giocato in contesti importanti nei loro Paesi. Arrivano in America ed entrano in un sistema che sa valorizzare perfettamente lo sport, le tue skill e le tue doti atletiche, ma anche lo studio. Fai parte di una squadra collegiale: se non hai buoni voti o non passi i corsi, puoi anche essere Messi o Neymar, non ti fanno giocare. C’è poi un’altra cosa che mi ha colpito molto: l’organizzazione calcistica. Io pensavo che negli Stati Uniti si giocasse tutto l’anno, invece si inizia a fine agosto, si fanno due settimane minimo di preseason, dove ti alleni mattina e pomeriggio, ma a ottobre si chiude la stagione regolare. Se vai ai Nationals, al massimo finisce tutto a novembre. Io ero lì e mi dicevo: “Cosa faccio il resto dell’anno?”. Fortunatamente, vivevo nel New Jersey: in meno di un’ora ero a New York. E anche Filadelfia era molto vicina. I weekend li passavo così, con gli amici. È stato veramente bello».

I Vikings sono la squadra di calcio che rappresenta Mercer County nel campionato NJCAA, il torneo in cui si sfidano i community college di tutta America. Un appellativo, quello di “vichinghi”, che coach Widmarc Dalce prende alla lettera. La preparazione è molto dura, ma sin da subito Francesco si impone, diventando il portiere titolare dei Verdi-oro del New Jersey.

«Il primo impatto con la squadra è stato molto positivo. Il mio allenatore voleva, come dire, “prepararci come dei soldati”: dovevamo essere in forma per la stagione. La preparazione è stata estremamente fisica e non molto tattica, davvero diversa da quelle che avevo fatto in Italia. Sin da subito, però, ho fatto una buona impressione sul coach e sono diventato il portiere titolare. Con me in squadra c’erano molti giocatori stranieri, che arrivavano da Brasile, Spagna e Messico, e il livello era davvero buono. Infatti, il primo anno è andata molto bene: abbiamo vinto la conference del New Jersey e anche il District, una specie di finale che, in caso di successo, ti permette di andare alla fase finale del campionato nazionale. Sfortunatamente, un giorno prima di partire per i National, nell’ultimo allenamento, mi sono rotto un dito; quindi, non ho potuto giocare la fase finale, dove siamo usciti ai quarti».

A Francesco non serve nemmeno un anno per ambientarsi, sia tra i banchi dell’università che tra i pali delle porte dei campi di calcio statunitensi, tanto da venir incluso nel secondo miglior undici della propria conference. È ormai un punto di riferimento per la squadra dell’ateneo del New Jersey, dove al suo secondo anno accoglie Giovanni Castagna, Tommaso Davico, Simone Liberi e Riccardo Sandulli, un poker di nuove leve giunte negli Stati Uniti grazie a Yes We College, e anche Nicolò Fasan, a completare un sestetto di italiani che per un anno sono inseparabili sia in campo che fuori.

«Il secondo anno a Mercer è stato diverso, perché sono arrivati cinque ragazzi italiani: alcuni erano miei amici, altri bene o male li conoscevo, anche solo di vista. Ci siamo ritrovati in sei, italiani, a vivere in un appartamento nel New Jersey. È stata una bellissima esperienza: abitavo con amici, a due passi da New York. La seconda stagione, invece, non è andata benissimo, perché mi sono rotto un dito, di nuovo, a metà stagione. Sono stato fuori e siamo usciti alle semifinali di conference. Nel frattempo, dopo che nel primo semestre avevo seguito solo i corsi di inglese, da metà del primo anno e per tutto il secondo ho frequentato i corsi universitari in Business and Management, accumulando abbastanza crediti per trasferirmi in un’università da quattro anni, per completare un programma universitario in Business Administration, con un focus sull’International Business. Così, Nicolò Baudo di Yes We College mi ha aiutato a trovare una nuova università. E sono andato a Pulaski, nel Tennessee».

Dopo Mercer County Community College, l’avventura a stelle e strisce di Francesco prosegue a University of Tennessee Southern, dove continuare il proprio percorso universitario per conseguire un bachelor degree, la laurea americana, avendo ottenuto nel New Jersey un associate degree, titolo che dopo un percorso accademico di due anni permette di completare gli studi e conseguire, appunto, un bachelor degree. La squadra dell’ateneo, i Firehawks, milita nel circuito NAIA, la National Association of Intercollegiate Athletics. Rispetto alla NJCAA il livello si alza e la voglia di mettersi in gioco è tanta. Tuttavia, l’ambientamento a Pulaski non è semplice e, se possibile, il rapporto con il nuovo allenatore, coach Chris Leonardi, è ancora più complesso.

«A Pulaski ero nel mezzo del nulla. La città più vicina era Nashville, ed era anche l’attrazione principale. L’università invece era molto bella: il campus era grande e all’interno si viveva in piccole casette. E poi giocavamo nel circuito NAIA, un contesto molto competitivo. Però, sono stato lì solo un anno, perché ho avuto qualche problema con il coach. Potrei definirlo un francese un po’ sopra le righe. Sì, abbiamo avuto un po’ di discussioni… All’inizio ho pensato: “Non ne voglio più sapere niente, voglio tornare a casa. Non faccio un altro anno qui”. Poi mi sono detto: “No! Voglio finire il mio percorso di studio. E voglio farlo in un posto che mi piace”. Così ho iniziato a contattare varie università, indipendentemente dal livello calcistico ma guardando a quello universitario, perché volevo continuare a studiare qualcosa che potesse servirmi in futuro. Nicolò di Yes We College mi ha aiutato a preparare qualche video da far visionare agli allenatori e ho iniziato a mandare e-mail a tutti i coach della West Coast: “Finché non trovo uno che mi risponde e mi fa un’offerta continuo”. Due giorni dopo mi hanno scritto da Westcliff University. Ho subito accettato. E mi sono trasferito. A Irvine, in California».

Dopo la parentesi in Tennessee, e le quattordici partite giocate con la maglia dei Firehawks, Francesco si trasferisce sulla West Coast, a Irvine, una delle principali città di Orange Country, una delle più belle contee di tutta la California. E, dopo i periodi difficili a Pulaski, è ancora più determinato a proseguire nel proprio percorso universitario, calcistico e di vita.

Mi sono trasferito a Westcliff University nel 2020, in pieno periodo Covid. L’università era chiusa, i corsi erano online e non si disputavano i campionati universitari. Era l’inizio del lockdown: non potevi vivere il college, ma era tutto aperto e, infatti, mi sono goduto il sole e le spiagge della California. Però mi sono anche fatto il mazzo, perché sono riuscito a laurearmi dopo pochi mesi, pur avendo iniziato il primo anno facendo solo i corsi di inglese nel primo semestre. All’inizio l’idea era quella di prendere la laurea e tornare in Italia, ma in California mi sono trovato davvero bene. E il mio coach mi ha fatto un’offerta per fare un master, dato che tutti gli studenti-atleti durante il periodo della pandemia hanno avuto un anno extra per giocare nei campionati universitari, che erano sospesi. E quindi sono rimasto, per il master, che ho finito in un paio d’anni, e per giocare. Siamo arrivati fino alle semifinali playoff».

Westcliff University è come un nuovo inizio: un ateneo in cui non solo terminare il percorso universitario iniziato in New Jersey e proseguito in Tennessee, ottenendo il bachelor degree, ma anche dove cominciare un master; un team, gli Warriors, dove si guadagna subito la fiducia di mister Tom Lancaster, giocando da titolare in tutte e diciannove le partite di una delle stagioni di maggior successo nella storia della squadra di calcio dell’università. E il primo capitolo di una nuova vita in California è appena cominciato.

«Mentre ero a Westcliff University facevo qualche lavoretto. Un giorno, mentre stavo lavorando, mi sono messo a chiacchierare con una persona: ha iniziato a farmi qualche domanda e gli ho raccontato che arrivavo dall’Italia e che ero venuto a giocare a calcio e a studiare. Mi ha chiesto: “Qual è il tuo indirizzo di studio?”. Gli ho spiegato che stavo finendo un master in Business Administration, con un focus sull’ambito internazionale. Lui mi ha domandato: “Ti piacerebbe venire a lavorare per me?”. Ho risposto: “Dipende, dove lavori?”. E lui: “Sono il vicepresidente di Monster”. Lì per lì ho pensato: “Questo qui mi sta prendendo per il culo. Non può essere vero”. Ad ogni modo mi ha lasciato il suo numero, dicendomi: “Vieni a visitare la sede dell’azienda, facciamo un colloquio, ti presento il team in cui lavoreresti e poi vediamo”. E così sono finito a lavorare per la Monster mentre stavo finendo il master».

A qualche mese dal conseguimento del master, Francesco ha l’opportunità di iniziare un percorso professionale nel quartier generale di Monster Beverage Corporation, una delle principali aziende di beverage al mondo. È un anno che scorre tra un lavoro soddisfacente e una continua crescita professionale, tra scadenze e impegni ma anche molti viaggi, oltre ovviamente a qualche fine giornata e fine settimana da trascorrere tra il sole e il mare della California.

«Verso fine anno mi scade il visto lavorativo. L’Italia mi manca, e molto, così come la mia famiglia e i miei amici, ma vorrei rimanere negli Stati Uniti. I miei capi sono super disponibili e mi hanno detto che potrebbero trovarmi una sistemazione in Europa, oppure in Canada o in Sudamerica. Il mio obiettivo però è restare qui, perché mi trovo bene e perché lavorare in America, in un’azienda così grande, è un’occasione più unica che rara per crescere professionalmente. Gli Stati Uniti a livello di opportunità sono avanti anni luce, soprattutto per chi vuole lavorare, studiare, mettersi in gioco e provare a fare la differenza in una grande organizzazione. È questa la mentalità americana. Voglio dire: il mio capo ha 42 anni, lavoro con persone tra i 21 e i 28 anni, uno dei più anziani in azienda ha 35 anni. Se sei giovane e hai voglia di fare, le aziende ti valorizzano. Magari sono stato fortunato io, però qui a Monster, sin dal primo giorno, mi sono sentito apprezzato. All’inizio, quando ho cominciato questo lavoro, non è stato semplice, ma i miei colleghi capivano che era la mia prima esperienza in una grande azienda e quindi sono stati disponibili e mi hanno aiutato. Sono arrivato sei anni fa e non sapevo l’inglese, ora lavoro nel business development team di una grande azienda. Se vuoi darti da fare, in America ti danno tutti gli strumenti per aiutarti a trovare la tua strada e poterti realizzare».

Dalla East Coast alla West Coast, passando per il Tennessee. Dal circuito NJCAA al campionato NAIA, sempre pronto a difendere la porta delle proprie squadre. Da un community college nel New Jersey a un master in California, per finire a lavorare in una grande realtà, giovane e dinamica. In quasi sette anni negli Stati Uniti, Francesco cambia la sua vita.

«Quello che più mi piace del sistema universitario americano è che ti permette di avere un piano B. E spesso il piano B, alla fine, diventa il tuo piano A, perché puoi crearti una carriera professionale e un futuro. È quello che all’inizio molti mi dicevano. Io non capivo, o forse non volevo capire, ma è davvero così. La maggior parte delle persone partono perché vogliono giocare a calcio, ma a un certo punto bisogna capire che non tutti ce la faranno: negli Stati Uniti giochi ad alto livello e hai anche l’opportunità di intraprendere un percorso di studi, così non resti a mani vuote. E poi fare un’esperienza lavorativa in America sicuramente espanderà i tuoi orizzonti e le tue alternative in futuro. Sono trascorsi sette anni da quando sono qui, mi sembrano passati in un secondo, mi sembra di essere partito ieri, ma oggi sono in grado di vedere i frutti del mio lavoro. Mi rende orgoglioso il percorso che ho fatto. E fa capire che il sistema americano funziona».

Cogliendo l’opportunità presentata da Yes We College, coronando un percorso da studente-atleta, Francesco può adesso guardare al futuro. E continuare a inseguire i propri sogni.

«Yes We College è un’esperienza che innanzitutto ti permette di uscire dalla tua comfort zone: vivi nuove situazioni e vedi un altro lato del mondo. E poi ti fa crescere a livello personale, intraprendi un percorso che, secondo me, ti aiuterà ad affrontare e gestire circostanze e problemi che se non avessi fatto un’esperienza così faresti più fatica a fronteggiare. Ovviamente, sta a ognuno mettersi d’impegno durante quest’avvenuta, affrontando i momenti più duri. Per me all’inizio è stato difficile, ero in un mondo completamente nuovo, lontano da famiglia e amici, però mi sono subito messo in testa che questa è un’opportunità che capita a pochi: sarebbe stato veramente da stupidi sprecarla. Alla fine, bisogna buttarsi, in tutto quello che si fa. È stata questa la mia filosofia in questo percorso, durato ormai quasi sette anni. All’inizio sembrava una pazzia partire per gli Stati Uniti, ora il mio obiettivo è restare. Perché qui vedo il mio futuro. Poi, tra una quindicina o ventina d’anni, mi piacerebbe tornare a vivere in Italia, che comunque è il Paese più bello del mondo. Magari con in tasca la green card, quello sarebbe un sogno, così potrei decidere se restare qui in America o tornare in Italia».

Recapiti
Niki Figus