Pascal Corvino Storia di un calciatore professionista – YesWeCollege

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«Credo che ho iniziato a giocare a calcio perché mio padre mi ha messo la palla tra i piedi. Lui ha giocato a calcio, ed è cresciuto giocando a calcio. La mia famiglia mi ha molto influenzato, magari se mi avessero dato una racchetta da tennis sarei diventato un tennista. Ricordo mio padre che mi portava fuori in giardino a giocare, oppure di quando mi portava al campetto: la passione l’ho presa da lui. Ho ancora delle foto a casa di quando facevo i primi ‘torneini’, quando avevo 4 o 5 anni. Nelle fotografie ci sono i miei vecchi compagni di squadra, che tutt’ora sono i miei migliori amici. Ancora oggi usciamo insieme, vent’anni dopo: è bellissimo. Ogni tanto rivedo quelle foto e mi tornano in mente tutti quei momenti».

Pascal Janik Corvino Panfilo nasce il 20 dicembre 1999 a Zurigo, in Svizzera, ma cresce, anche calcisticamente, in Emilia-Romagna. Dopo aver mosso i primi passi su un campo da calcio insieme a papà Gianni, e aver conosciuto alcuni dei suoi migliori amici praticando il suo sport preferito, Pascal riesce a farsi strada fino ad arrivare alle Serie D. Cresciuto nelle giovanili del Rimini, indossa le maglie di Romagna Centro e Santarcangelo, iniziando a respirare le atmosfere del professionismo.

«Essere un calciatore professionista è sempre stato il mio sogno. Qualcosa che davvero volevo fare e per cui ho anche investito un sacco di tempo. In Italia stavo giocando in Serie D ormai da due anni e volevo diventare un professionista. Diciamo che mi sono trovato un attimo in una sorta di limbo nella mia vita: avevo finito il liceo, non studiavo, anche perché non ne avevo il tempo, ma giocavo a calcio, anche se non guadagnavo molto, come tutti gli under. Quando sei in Serie D non hai il tempo per studiare, mentre io volevo continuare a giocare e però, allo stesso tempo, dedicarmi anche allo studio e a costruirmi un futuro. Perché studiare è qualcosa che serve sempre, a prescindere. Avere un’istruzione, una laurea, è qualcosa di utile, indipendentemente da quello che uno fa nella propria vita».

In Italia per un giovane calciatore continuare gli studi è estremamente difficile e, più in generale, secondo i dati Istat, quattro giovani italiani su cinque sono costretti forzatamente ad abbandonare la pratica sportiva a causa del carico di lavoro scolastico. Nel nostro Paese è particolarmente complesso coniugare sport e scuola, e all’aumentare dell’età è sempre più complicato conciliare i banchi di scuola e i campi da calcio. Una situazione che Pascal vive in prima persona.

«Questo è un po’ un taboo, ma in Italia, secondo me, si è troppo lontani dal far convivere lo sport con lo studio. E questo è un errore gravissimo. Fin da quando sei piccolo, e poi ancora di più verso i 13 o 14 anni, nel momento in cui i tuoi genitori vanno ai colloqui, i professori sono i primi a dire: “Suo figlio è sempre sul campo da calcio, si allena quattro-cinque volte a settimana, non ha tempo di studiare, non ha tempo per prepararsi”. E, allo stesso tempo, al calcio, al settore calcistico in Serie D, non interessa poi molto della scuola, o del futuro del ragazzo».

La voglia di tentare il salto nel professionismo calcistico senza però rinunciare a un’istruzione e alla possibilità di avere un futuro sono due delle principali ragioni che lo spingono a voler partire per gli Stati Uniti, cogliendo l’opportunità presentata da YesWeCollege. Allo Showcase di Padova del 2018, Pascal impressiona tutti e riesce così a fare un primo, decisivo passo verso il raggiungimento del suo sogno, venendo selezionato direttamente all’evento per trasferirsi e andare come studente-atleta negli States.

«Mi sono trovato a fare gli Showcase nell’estate del 2018, per poi partire nell’estate del 2019. Ci è voluto un po’ perché bisogna sistemare i documenti, ci sono alcuni esami da sostenere, come ad esempio i SIT, i test altitudinali che si fanno per iscriversi ai college statunitensi… Cose che richiedono un po’ di tempo. Intanto ho fatto un altro anno in Serie D, in Italia. Pensavo: “Chissà, magari è l’anno buono”. Nella mia testa, però, sapevo che sarei partito. Anche perché avevo sì il desiderio di giocare, ma volevo anche arricchirmi da un punto di vista personale, avevo voglia di intraprendere un percorso universitario, di appassionarmi a qualcosa che non fosse solamente il calcio. E in America questa cosa riesce benissimo. “È tanta roba”, pensavo: “Sì, voglio continuare a giocare. E voglio provare a diventare un professionista negli Stati Uniti”».

La prima tappa a ‘stelle e strisce’ di Pascal è USC Upstate, un college a Spartanburg, nel South Carolina. Rispetto al contesto calcistico e scolastico italiano, gli Stati Uniti sono davvero il ‘nuovo mondo’, un universo fatto di studio sui banchi del college e di soccer con la maglia degli Spartans, la squadra dell’università, dove vivere appieno la vita da studente-atleta.

«Negli Stati Uniti hai la possibilità di avere un’educazione che si sposa con il calcio, che ti permette e ti dà il tempo di giocare, anche a un buono livello, perché nella NCAA Division I c’è veramente un buon livello. Innanzitutto, ci sono delle strutture sportive che in Italia non ho mai visto. E quello sicuramente fa la differenza, perché metti gli atleti a proprio agio. Ma poi, soprattutto, c’è grande collaborazione, tra scuola e studio, tra professori, advisors e coach. Tutti si conoscono, tutti lavorano insieme. Nessuno punta il dito contro qualcun’altro, come magari succede in Italia, dove il professore ti rimprovera perché pensi troppo al calcio, mentre al mister magari non interessa niente dello studio e quindi, spesso, per andare ad allenamento devi saltare scuola. Negli Stati Uniti è tutto sincronizzato, ti mettono nella migliore condizione per allenarti, giocare e studiare. È perfetto, è un sistema che secondo me in Italia ce lo sogniamo e che è da invidiare. Anche perché gli Stati Uniti sono enormi: spesso ti trovi a dover prendere l’aereo per giocare una partita in trasferta, parti giorni prima, torni giorni dopo, quindi non sempre riesci a essere presente a lezione; il professore però lo sa e, dunque, si mette nei tuoi panni, ad esempio mandandoti una video-lezione, così che tu non perda quello che ha spiegato, e hai sempre la possibilità di rimanere in pari anche se fisicamente non puoi essere in aula perché hai impegni sportivi. Nel college tutti lavorano insieme, si collabora, tutti si aiutano e alla fine chi ne beneficia sono io, che sono lo studente-atleta. È fenomenale».

La vita dello studente-atleta, però, è molto diversa da come spesso viene rappresentata: sono necessari sacrificio, impegno e abnegazione, perché avendone appunto la possibilità è necessario, anzi doveroso, coniugare studio e sport. E così come sui banchi universitari, anche per quanto riguarda i campi di calcio americani gli stereotipi sono appunti tali, visioni semplicistiche che spesso non superano la prova della realtà.

«Il college è bello. Ci si diverte un sacco, ma non è quello che la gente pensa, non è un film. Tu comunque sia ti alleni, vai in palestra, vai in classe, devi fare presentazioni e progetti, dare esami, ‘parziali’, ‘finali’… Poi sì, fai anche festa, perché fai anche festa, però i party nel college, che è poi un po’ l’immagine che tutti hanno quando si pensa al college americano, sono il 2% di tutto quello che il college americano è e rappresenta. Magari una persona che sta per partire per gli Stati Uniti può pensare: “Vado là a fare festa, a divertirmi e a giocare a calcio”. Ma no, non è così. Ci sono tante altre cose da fare e da mettere in conto, se vuoi avere successo. Quanto al livello calcistico, sono rimasto veramente a bocca aperta. Nel 2018-2019, quando sono partito, era una cosa, ma già si vedeva che il livello si stava alzando, che molte più persone sarebbero partite negli anni seguenti. Ma comunque già all’epoca il livello era, ed è, veramente alto. Vedi giocatori che potrebbero tranquillamente giocare a un livello altissimo in Italia e fare la differenza. Magari nel nostro calcio, a differenza che negli Stati Uniti, c’è quell’esperienza in più che ovviamente a loro manca, perché in America il più grande ha per esempio 23 o 24 anni, mentre invece in Italia trovi uomini di 34, 35 o 36 anni, che sono vent’anni che giocano e che quindi hanno quell’esperienza in più. Ad ogni modo, gli americani sono molto, molto più atleti. Quando agli inizi mi sono trovato negli Stati Uniti e andavo in palestra, tre o quattro volte a settimana, a fare squat, a caricare non dico nemmeno quanto sui bilancieri, mi dicevo: “Ma che è qua?! Io qui mi spezzo la schiena”. Invece vedi loro che saltano, fanno, vanno, a destra, a sinistra… E poi in campo vanno sempre a tremila! Sotto quel punto di vista loro sono davvero degli atleti. Hanno un calcio molto fisico, molto veloce, con molta intensità. È un calcio meno tattico, molto più ‘fronte a fronte’. Vedi partite decisamente più aperte, dove magari si possono segnare 3, 4 o 5 gol, mentre invece in Italia siamo un po’ più organizzati a livello tattico. In America ho l’impressione che si vada sempre a tremila, in ogni cosa che si fa. Quando si è palestra, in campo, quando si gioca… Sempre».

Le due stagioni di Pascal a USC Upstate sono ricche di successi e soddisfazioni, dentro e fuori dal rettangolo verde. Grazie all’efficiente sistema accademico statunitense è possibile continuare a studiare per potersi formare e costruirsi un avvenire, mentre con la maglia numero 23 degli Spartans, se possibile, le cose vanno ancora meglio. Forse, in un certo senso, anche troppo bene. 25 partite in due anni, tutte da titolare, condite da 8 gol, ma anche dall’inclusione nel secondo miglior undici al suo secondo anno, dopo essere stato nominato, nella stagione dell’esordio, nella prima squadra della Big South Conference, il raggruppamento regionale in cui milita la squadra di calcio di USC Upstate. Sin da subito diventato un titolare con i colori nero-verdi, a Pascal inizia a stare un po’ stretta la sua conference, non una delle più competitive della NCAA Division I, il massimo livello del campionato collegiale a ‘stelle e strisce’. Che ha decisamente qualcosa in più da offrirgli. E, così, Pascal inizia a volere qualcosa di più.

«Son partito col desiderio di farcela. E mi dicevo: “Dai, in uno o due anni ce la faccio ad andare a giocare da qualche parte”. Uno dei motivi per cui ho lasciato l’Italia era quello di mettermi in gioco, a livello personale e calcistico, e secondo me ad Upstate era un po’ entrato nella mia confort zone. Così ho deciso di rimettermi in gioco, di ripartire da zero, di cambiare università per gli ultimi due anni. E sono andato via da una squadra in cui avevo fatto bene e mi sentivo molto a mio agio».

Taking the road less traveled”, si dice oltreoceano: agire in modo indipendente, privo dell’altrui condizionamento, percorrere quella strada che in molti non avrebbero nemmeno pensato di imboccare per poi ritrovarsi proprio grazie a quel percorso alla destinazione che ci si era prefissati, alla meta per cui era cominciato il viaggio. Davanti a sé, per il post USC Upstate, Pascal ha due possibilità: andare all’Università del Rhode Island, che gli garantisce una borsa di studio completa e anche un posto assicurato in una squadra di buon livello seppur in ricostruzione, oppure andare a Missouri State, dove la borsa di studio non paga tutte le spese e il posto da titolare è tutt’altro che certo.

«Avevo l’opportunità di andare a Rhode Island: un’ottima squadra, che gioca in una conference importante, con buoni giocatori, allenata da due grandi mister. Sapevo che se fossi andato lì avrei giocato, e avrei avuto un ruolo da protagonista. E poi c’era Missouri State. All’epoca era top-ten nella nazione, con tanti ragazzi forti e dal backgorund importante: c’era chi aveva giocato nel Manchester United, chi veniva dalle giovanili del Burnley, ragazzi italiani che erano stati ai massimi livelli… Veramente un livello stratosferico. Però, sapevo che non avrei avuto il posto garantito. Tant’è che loro, sin da subito, mi hanno detto: “Qui abbiamo giocatori forti, non siamo top-dieci per sbaglio. Vieni qua e te la giochi: se sei meglio di loro vai in campo, se non sei meglio di loro dovrai lavorare in allenamento per dimostrare che puoi giocare”. Ho deciso di andare a Missouri State. Perché mi sono detto: “Alla fine questo è quello che sto cercando di fare, questo è quello che voglio fare. Voglio una sfida, voglio sentire il fuoco dentro, voglio andare al campo di allenamento sapendo di dover sudare per poter giocare nel weekend, sapendo di dover andare a conquistare un posto. Non voglio andare in un posto dove le cose mi verranno date, diciamo, no matter what’, dove tutto sarebbe più scontato”».

Per chiunque sarebbe scontata la scelta tra un college che assicura una borsa di studio completa con un posto in squadra garantito o un’università dove è necessario sostenere parte delle spese e fronteggiare un’agguerrita concorrenza per cercare di guadagnarsi ogni giorno in allenamento i propri minuti, ma non per Pascal, partito dall’Italia e arrivato negli Stati Uniti per coronare il suo sogno: diventare un calciatore professionista. Quello è il suo obiettivo, una bussola per arrivare alla destinazione di un percorso professionale e di vita, ciò a cui sente di dover guardare per orientare la propria scelta.

«È stata un po’ una “scapocciata” mia. Non c’è mai stato nessuno che mi ha parlato male di Rhode Island, dei coach, delle facilities, della scuola: tutti me ne hanno sempre parlato bene. Sapevo che giocavano in una conference tostissima, e quando sono andato là, a parlare con i coach, ho visto che avevano un programma serissimo. Durante i colloqui, gli allenatori di Rhode Island mi hanno detto: “Guarda, noi stiamo ricostruendo la squadra”. Gli ho risposto: “Io voglio diventare un calciatore professionista. Voglio provarci, almeno”. E loro mi hanno detto: “Sarà veramente difficile entrare nel professionismo da qua al termine di questi due anni, perché comunque sia noi siamo in una fase di ricostruzione e, secondo noi, ci vorranno almeno un paio d’anni affinché la squadra ritorni a livelli a cui eravamo prima”. Stavano per iniziare un nuovo ciclo, stavano ricostruendo la squadra, e questa cosa un po’ mi ha fermato. A Missouri State, invece, in quegli anni, oltre a uno dei migliori programmi accademici, avevano una delle squadre più forti di tutta l’America. E più è forte la squadra dove giochi, più partite vinci e, automaticamente, più esposizione hai a livello personale. Il fatto che fossero in alto nel ranking, che fossero una delle dieci rose più forti degli Stati Uniti e, forse soprattutto, questa sfida, il fatto di dovermi conquistare un posto da titolare e da protagonista, è quello che mi ha motivato e che mi ha spinto a prendere la decisione di andare a Missouri State. Volevo qualcosa che tenesse viva la mia passione, che tenesse acceso quel fuoco che a Upstate era andato un po’ via, non perché non mi trovassi bene, anzi, ma proprio perché ero veramente a mio agio. Anche troppo. Volevo qualcosa che mi facesse sudare, anche se magari non quanto ho poi effettivamente sudato».

La vita dello studente-atleta non è come nei film, tanto sui banchi universitari, così come sui campi da calcio. Non c’è una sceneggiatura immutabile per cui il protagonista è destinato a trionfare, non c’è un copione tale per cui, siccome hai scelto la strada più difficile, ti viene garantito l’arrivo certo e sicuro alla meta. Anzi, tutt’altro. E, tant’è, per Pascal il primo impatto con Missouri State è alquanto difficile. E, più in generale, a essere complicato è tutto il suo primo anno. A fermarlo sono due degli ostacoli più frustranti e difficili da superare che possono porsi dinnanzi al percorso di un giovane calciatore: gli infortuni e un cattivo rapporto con l’allenatore, coach Michael Seabolt.

«Il primo anno sono arrivato e mi sono infortunato. Mi sono stirato il flessore e sono stato fuori un po’, circa un mesetto. E poi, secondo me, il primo anno coach Seabolt non mi poteva vedere. Onestamente, mi sentivo un numero, quindi anche io, in un certo senso, non potevo vedere lui. Mister Seabolt è molto fuori dalle righe: non importa chi tu sia o cosa tu abbia fatto prima, a livello collegiale o di carriera personale, in Italia o altrove, quando tu arrivi a Missouri State parti da zero. E ci sono delle gerarchie. Lui si fida molto dei giocatori che sono in rosa da tanto tempo, e che gli hanno già dimostrato di poter giocare al livello a cui lui pensa si debba giocare a Missouri State. Si fida molto dei calciatori che sono con lui da tanto tempo e, comunque sia, ha dei principi, sia a livello calcistico che morale, che vanno imparati. È estremamente professionale e vuole che le regole che lui detta, chiare e nette, siano rispettate dentro e fuori dal campo. E, sul terreno di gioco, appena esci un attimo dalle righe e fai qualcosa che non rientra nei suoi piani fai davvero fatica a trovare spazio la domenica. E all’inizio è andata un po’ così: io ero abituato a essere protagonista in campo e facevo quello che pensavo fosse giusto, mentre lui aveva altre visioni e preferiva altri profili di giocatore. Ci ho messo un po’ per adattarmi. Mi sentivo in una situazione difficile, del tipo: “Se dribblo quattro giocatori e faccio gol da centrocampo lui si gira dall’altra parte, senza dire niente, mentre se invece sbaglio un passaggio di cinque metri non vedo mai più il campo. Non importa se mi alleno bene, sempre più forte, comunque non gioco. E quelle poche volte che metto piede in campo e commetto un piccolo errore, ecco, allora ciò diventa il pretesto per aggravare ancora di più le cose”. Mi sentivo così. E, anche se non l’ho mai fatto notare a nessuno, se non ai miei genitori, ogni tanto pensavo: “Che cazzata che ho fatto”».

Il primo anno di Pascal è particolarmente complicato. Prima un infortunio, poi un cattivo rapporto con il mister. Un uno-due che sarebbe in grado di mettere ko chiunque. E, come spesso accade, al danno si aggiunge la beffa: il sistema collegiale statunitense, infatti, prevede che nell’arco del quadriennio un calciatore possa cambiare università, e dunque squadra, solamente una volta. Dopo l’addio a Upstate, quindi, Pascal è sostanzialmente obbligato a rimanere a Missouri State. Ed è con le spalle al muro, ma soprattutto lontano dal campo, prima per colpa di un infortunio e poi per scelta tecnica. Una situazione alquanto complessa. Che, nuovamente, lo pone dinnanzi a una scelta: mollare, oppure continua a inseguire il suo sogno.

«In America non funziona come in Italia, o come nel resto del mondo, non ci sono il mercato estivo o quello invernale, per cui se non ti trovi bene da una parte prendi e vai da un’altra. Negli Stati Uniti ti puoi trasferire solo una volta in quattro anni. E così io ero vincolato, avevo già usufruito del ‘portal transfer’. Se volevo portare a termine gli studi dovevo restare a Missouri State, non c’era altra possibilità. Ci sono stati momenti in

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