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Workout Magazine - Studio Chiesa communication

Workout magazine incontra Miriam Olivi, Presidente dell’associazione Women in Plastics Italy

Donne nella plastica, anzi «nelle materie plastiche» per essere precisi, perché il termine – generico – raccoglie sotto di sé parecchi tipi diversi di polimeri che differiscono moltissimo per proprietà e caratteristiche pur essendo oggi tutti accumunati – e ne parleremo – da un diffuso stigma sociale.
Bene, di queste donne ve ne vorrei innanzitutto presentare una. Si chiamava Brownie Wise ed era nata nel 1913 in Georgia da una famiglia modesta – padre idraulico e madre cappellaia – che si sfasciò presto. Il padre scomparve perciò dalla vita di Brownie quando lei era ancora una bambina, ma anche la madre fu una grande assente perché, lavorando per il sindacato della categoria, era perennemente itinerante da uno Stato all’altro. Brownie crescerà sotto l’ala protettrice di una zia sarta, frequentando la scuola con poco interesse – verrà un po’ impietosamente descritta come più attenta alla moda e ai primi flirt che non alle materie di studio – ma buon profitto a conferma di un’intelligenza pronta e intuitiva che sarà testimoniata anche dalle sue esperienze successive. Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio del decennio successivo la troviamo infatti tra le firme del Detroit News: ha uno pseudonimo, Hibiscus, e una verve narrativa che le fa costruire storie affascinanti in cui dettagli della sua vita reale si mischiano liberamente all’invenzione creata dai suoi desideri. Nel frattempo si è anche sposata: matrimonio infelice proprio come quello dei suoi genitori, il marito si rivela un alcolizzato violento e lei lo lascia dopo una manciata di anni tormentati. Alla fine della guerra Brownie ha trovato una nuova strada professionale: venditrice presso la Stanley Home Products. È qui che inaugura la strategia di vendita che la renderà famosa: i party. Il sistema è geniale: organizzare in case private dei momenti conviviali con le amiche dell’ospite, nel corso dei quali una rivenditrice della Stanley, in qualità di guest of honor, presenta alcuni articoli e li propone per l’acquisto alle partecipanti. Il successo ottenuto (si favoleggia che riuscisse a vendere due camion di prodotti alla settimana) le fa pensare di poter aspirare a un ruolo dirigenziale all’interno dell’azienda, ma la risposta alla sua richiesta è una doccia fredda: il management non è un affare da donne ed è meglio che lei non sprechi tempo a coltivare simili ambizioni. Per Brownie quelle parole sono brucianti: decide di licenziarsi ed è a questo punto che la sua strada si incrocia con quella di Earl Tupper.

Chimico di estrazione, Tupper aveva scoperto come purificare la scoria di polietilene nero trasformandola in una sostanza flessibile, resistente, non porosa e di aspetto opalino: il Poly-T. Con essa Tupper aveva realizzato una ciotola infrangibile e leggera, dotata di uno speciale coperchio che le consentiva di essere chiusa ermeticamente e perciò adatta sia agli utilizzi domestici che al trasporto degli alimenti fuori casa, la Wonder Bowl. Messa in vendita nei grandi magazzini, avrebbe tutti i crismi per essere un successo e invece è un flop: la gente non è abituata alla plastica come materiale per i casalinghi – i contenitori del tempo sono in vetro o in ceramica – e il coperchio non ha un utilizzo intuitivo. Chi invece ne capisce le potenzialità è Brownie Wise che si offre di cambiarne radicalmente le modalità di vendita impostandole sul modello party che tanto aveva performato con la Stanley. Tupper ne è semplicemente conquistato e le offre di dirigere il nuovo settore della sua impresa, la Tupperware. Ha visto giusto, in breve è il trionfo: nel 1954 le persone coinvolte nella rete di vendita e distribuzione raggiungono il numero stratosferico di 20.000 e il fatturato dell’azienda è balzato a 25 milioni di dollari che, traslati ai nostri tempi, equivarrebbero a circa 230 milioni, con una gamma di prodotti che nel frattempo, con il nome di Millionaire Line, si è ampliata e differenziata fino a comprendere oggetti come gli stampi per i ghiaccioli e i vassoi con i divisori interni che diventeranno emblematici del nuovo lifestyle imperante negli States del Dopoguerra.

Pezzi in materiale plastico stampati.

Se vi ho intrattenuto così a lungo su questa storia – ne rimando la fine al termine dell’articolo – è perché ruota attorno a una parola che per l’imprenditoria dovrebbe essere magica: comunicazione. Brownie Wise aveva capito che se la Wonder Bowl non aveva «sfondato» era semplicemente perché la gente non ne conosceva le caratteristiche, non era in grado di riconoscerne l’utilità e doveva essere condotta per mano, si potrebbe dire, a scoprirne le qualità che la rendevano così indispensabile in una casa «moderna». La conoscenza sarebbe stata la via per il successo e la comunicazione lo strumento per percorrerla. Ecco perché la Wise aveva un’attenzione maniacale per la formazione delle rivenditrici obbligandole, tra le altre cose, a frequentare corsi di public speaking e dando loro suggerimenti perfino sulla postura e l’espressione da tenere durante le presentazioni.

Anche oggi la plastica avrebbe bisogno di una comunicazione corretta. Apparentemente ce ne è in abbondanza, ma non di rado è superficiale e polarizzata tra chi la difende a spada tratta e chi invece la vede come un prodotto satanico, mentre i consumatori avrebbero il diritto di conoscerne i pro e i contro in modo preciso, trasparente e onesto. Proprio a questo pensavo andando a incontrare Miriam Olivi, presidente della neonata Associazione Women in Plastics Italy e Sales Director di Frigosystem, azienda di Caronno Pertusella specializzata nella produzione e commercializzazione di prodotti per la refrigerazione industriale.

Il consiglio direttivo di Women in Plastics Italy.

«Women in Plastics Italy – racconta Miriam Olivi – è un’associazione senza scopo di lucro costituita nell’ottobre 2024, ma che informalmente esiste più o meno da un anno prima della data ufficiale di fondazione. Lo spunto è venuto da una serie di interviste, raccolte da una rivista tecnica, a donne del settore della plastica. Tra le intervistate c’ero anch’io, delle altre qualcuna la conoscevo, altri nomi invece mi erano nuovi. Comunque da lì abbiamo cominciato a farci delle domande, a riflettere su di noi, a dirci che forse non eravamo così poche, disperse e sole, che c’era un terreno sul quale provare a seminare, se non altro conoscenza reciproca».
Il primo passo è stato organizzare un pranzo in occasione di PLAST 2023, la grande manifestazione fieristica dedicata all’industria della plastica e della gomma che si tiene ogni tre anni a Milano: «Siamo partite da quel primo gruppo di intervistate. Cosa ci proponevamo? Diciamo che l’intenzione era essenzialmente quella di conoscersi meglio e confrontarsi ma probabilmente spingevano dentro di noi anche il desiderio, diciamo, di un conforto oltre che di un confronto, il bisogno di solidarietà, la voglia di aprirsi raccontando le proprie esperienze, a volte vissute con fatica, e il sollievo nel riconoscere quanti parallelismi esistevano con la vita professionale delle altre. Da quel momento è totalmente cambiato il nostro modo di percepire la presenza femminile nel nostro settore, dopo quel pranzo sono certa che ciascuna di noi, girando per la fiera, avrà gettato un occhio nei vari stand per vedere se ci fosse qualche donna e si sarà chiesta se le sarebbe piaciuto unirsi a noi».

Sistema di taglio immerso – Underwater Lab.

È un lento avvicinamento, uno studiarsi con curiosità ed empatia. L’appuntamento successivo è in un hotel milanese: la voglia è di continuare nel percorso di conoscenza reciproca, ma non solo. Perché adesso c’è la sensazione che si stia formando una vera community ed è importante «scoprire le proprie carte», interrogarsi sulle reciproche aspettative, sugli obiettivi che ci si vuole dare, «anche se ci siamo subito confermate l’esigenza del continuare a stare insieme» ricorda Miriam. «Insieme a quella certezza però è emersa la concretezza che ci caratterizza e che ci ha portato a immaginare una serie di attività future». Quali? «Beh, innanzitutto la ricerca di occasioni di incontro durante le fiere di settore, della serie: “la prossima settimana sarò a Dubai, c’è qualcuna di voi per un caffè e una chiacchiera?”, e così siamo riuscite a ritrovarci in tutte le parti del mondo, da Shangai a Orlando. E poi l’organizzazione di momenti di formazione, sul public speaking piuttosto che sull’empowerment femminile per far emergere il nostro talento, il nostro valore. Da lì è venuta anche l’idea di speech tematici per aumentare la nostra conoscenza su determinati temi. È chiaro che a poco a poco, man mano che aumentava la nostra rete relazionale, man mano che cercavamo di aggregare nuove persone attorno al nostro progetto e queste persone ci ponevano domande precise, si è imposta la necessità di costituire qualcosa di più ufficiale e coordinato, indispensabile soprattutto perché volevamo, e vogliamo, interagire anche con aziende, altre associazioni e in un prossimo futuro con le istituzioni. Bisognava sacrificare la spontaneità del fare gruppo, la leggerezza e la libertà che ci caratterizzavano all’inizio per approdare a qualcosa di più istituzionalizzato se la nostra intenzione è di incidere in profondità nel nostro settore».

Impianto di refrigerazione per processi di trasformazione delle materie plastiche.

Oggi le socie sono ormai più di un centinaio, un risultato incredibile che secondo Miriam Olivi si spiega con il fatto che gli scenari che caratterizzano i «dietro le quinte» di tante aziende della plastica spesso non vedono il riconoscimento del talento delle donne che vi lavorano, la loro valorizzazione, «non fanno emergere le loro caratteristiche, il loro “colore”. Perciò quando abbiamo cominciato a promuovere la nostra iniziativa, il messaggio è stato subito recepito e il nostro metterci a disposizione per raccontare che cosa vorremmo fare nel nostro comparto ha attirato attenzione, entusiasmo e anche emozione. Non ultima, la voglia di fare». Nell’associazione può entrare qualunque donna lavori nel campo delle materie plastiche, indipendentemente dal ruolo ricoperto, ma poi ci sono i soci sostenitori, cioè essenzialmente le aziende che hanno al loro interno una o due socie ordinarie «e che vogliamo trascinare in questo percorso affinché apporti beneficio ai contesti in cui operiamo quotidianamente», i soci cosiddetti aggregati, uomini o donne che siano, indipendentemente dal loro ambito professionale, perché «se vogliamo essere promotrici di inclusività dobbiamo essere noi stesse un esempio», e infine i soci onorari che per la loro rilevanza, esperienza e competenza possano sostenere l’associazione e diffonderne il messaggio.

Recapiti
Anna Brasca