Posted at 17:23h in Books, Senza categoria
Giunse nella nostra valle nell’estate dell’89. A quei tempi ero un ragazzino, e superavo appena in altezza l’asse del vecchio carro di mio padre. Ero seduto sulla sbarra più alta del nostro piccolo recinto, immerso nella luce del sole del tardo pomeriggio, quando lo vidi comparire in fondo alla strada, là dove questa s’immetteva nella valle dall’aperta pianura oltre di essa.
Nell’aria tersa del Wyoming, potevo vederlo chiaramente, anche se era ancora a diversi chilometri di distanza. Non sembrava esserci nulla di straordinario in lui: semplicemente un altro cavaliere vagabondo che cavalcava lungo la strada verso il gruppo di case di legno che costituiva la nostra città. Poi vidi un paio di mandriani che lo superarono al piccolo trotto, si fermarono e lo fissarono con singolare attenzione.
Il cavaliere proseguì per il paese, senza rallentare la sua andatura fino a quando non raggiunse il bivio a meno di un chilometro da casa nostra. Una delle due strade svoltava a sinistra, oltre il guado del fiume, e arrivava fino al grande ranch di Luke Fletcher. L’altra procedeva lungo la riva destra, dove noi che avevamo preso i terreni in concessione avevamo costruito le nostre abitazioni l’una accanto all’altra lungo tutta la valle. Il cavaliere esitò per un attimo, esaminando le due possibili scelte, poi si mosse di nuovo con decisione dalla nostra parte.
Quando si avvicinò, la prima cosa che mi colpì di lui furono i suoi vestiti. Indossava pantaloni scuri di un tessuto di serge infilati in stivali alti e stretti in vita da un’ampia cintura di morbida pelle nera – la stessa degli stivali – decorata con un motivo intricato. Una giacca dello stesso tessuto scuro dei pantaloni era piegata con cura e fissata alla sella. La camicia era di lino finemente tessuto, di un bel colore marrone. Il fazzoletto annodato mollemente intorno al collo era di seta nera. Il cappello non era il familiare Stetson, né il colore era il familiare grigio o marrone chiaro. Era un semplice cappello nero, che pareva essere fatto con un tessuto morbido, diverso da qualsiasi cappello avessi mai visto, con la corona spiegazzata e un’ampia tesa arrotolata e abbassata sul davanti in modo da proteggere il viso.
Qualsiasi traccia facesse sembrare quegli indumenti recenti, era ormai svanita da un pezzo. Sopra di essi si era incrostata la polvere delle strade. Erano logori e macchiati, e la camicia era stata visibilmente rattoppata, anche se con cura, in diversi punti. Eppure, l’insieme continuava ad emanare una sorta di magnificenza che mi riportava alla mente un mondo e costumi estranei alla mia giovane esperienza.
Ma ben presto mi dimenticai di quello che indossava, colpito dalla forte impressione che mi fece quell’uomo. Non era molto più alto della media, quasi esile di corporatura. Accanto a mio padre, con la sua stazza possente, sarebbe apparso fragile. Eppure, nei tratti di quella figura oscura, percepivo una capacità di resistenza e una forza silenziosa nel modo in cui compensava, in modo naturale e senza sforzo, ogni movimento del suo cavallo stanco.
Era ben rasato e il viso, magro e duro, portava i segni lascianti dal sole sulla fronte alta fino al mento deciso e appuntito. All’ombra della falda del cappello, gli occhi parevano socchiusi. Ma quando fu più vicino, mi accorsi che in realtà teneva le sopracciglia aggrottate, con quell’espressione concentrata di chi è abituato a stare all’erta. Sotto le sopracciglia, gli occhi continuavano a guardarsi intorno, a destra, a sinistra, e verso l’orizzonte, passando in rassegna ogni dettaglio visibile, senza perdersi nulla. Non avrei saputo dire perché, ma quando me ne accorsi, mi sentii percorrere da un brivido, nonostante il sole splendesse alto e caldo nel cielo.
L’uomo cavalcava senza fatica, rilassato in sella, appoggiando oziosamente il peso sulle staffe. Eppure, anche quella semplicità rivelava una certa tensione. Era la semplicità di una molla pronta a saltare, di una trappola tesa.
Traduzione di N. Manuppelli