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Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fervore della ricostruzione post-bellica contagiava anche il cinema europeo: nuovi film, nuove produzioni. Nel 1947, il regista Christian-Jacque cominciò a lavorare a un film su La Chartreuse de Parme, avvalendosi del sostegno di una solida co-produzione italiana e francese. Il film, in bianco e nero, fu girato principalmente negli studi di Cinecittà, poi a Milano e sul lago di Como. Arrivò nelle sale cinematografiche nel 1948: in Italia il 21 febbraio e in Francia nel mese di maggio, dove presto divenne il film più visto dell’intero anno. Il successo di pubblico fu immediato ma generò, soprattutto Oltralpe, un acceso dibattito, anzi una vera ‘rivolta’, capitanata da Henri Martineau, scrittore e profondo studioso di Stendhal, animatore della rivista Le Divan, fondatore dell’omonima casa editrice, dove pubblicò e curò l’intera opera stendhaliana, curatore della pubblicazione dei romanzi e dei racconti di Stendhal nella Bibliothèque de la Pléiade e infaticabile ricercatore di inediti stendhaliani. Martineau insorse vigorosamente contro il film, coinvolgendo nella sua battaglia altri scrittori, associazioni letterarie, club di lettori, riviste. La Chartreuse doveva mantenere una sorta di sacralità oppure poteva essere ‘volgarizzata’?
Poteva essere adattata per il grande schermo senza che ciò costituisse una haute trahison della cultura?
Il dibattito continuò per lungo tempo. Altre opere di Stendhal furono oggetto di film: nel 1952 Mina de Vanghel di Maurice Clavel, nel 1954 Le Rouge et le Noir con la regia di Claude Autant-Lara, nel 1961 Vanina Vanini con la regia di Roberto Rossellini. Sempre nel 1961 vi fu un adattamento televisivo de Le Rouge et le Noir con la regia di Pierre Cardinal, ma nel cinema nessuno osò avvicinarsi a La Chartreuse de Parme: vi furono omaggi, rimandi, bellissime suggestioni (come in Prima della Rivoluzione del 1964 di Bernardo Bertolucci), ma per lungo tempo non vi è stata nessuna nuova opera cinematografica né televisiva.
Molti anni più tardi, Italo Calvino, in un articolo sul quotidiano La Repubblica dell’8 settembre del 1982, scriveva:
Quanti nuovi lettori porterà al romanzo di Stendhal la nuova versione filmata della Certosa di Parma che apparirà tra poco in televisione? Forse pochi se rapportati al numero di telespettatori, o magari moltissimi secondo la scala di grandezze delle statistiche sulla lettura dei libri in Italia. Ma il dato importante nessuna statistica potrà fornircelo, e sarà quanti giovani riceveranno il colpo di fulmine fin dalle prime pagine, e si convinceranno d’improvviso che il più bel romanzo del mondo non può che essere questo […].
Dopo più di quarant’anni dall’articolo di Calvino, non sappiamo quanti nuovi lettori del romanzo abbia portato la serie televisiva in sei puntate diretta da Mario Bolognini, né quanti la serie televisiva del 2012 diretta da Cinzia TH Torrini. Entrambe hanno avuto un ottimo successo di pubblico. Difficile, anche in tempi in cui imperano le fiction, valutare l’impatto di una serie tv sul potere di seduzione di un capolavoro letterario: esse aumentano questo potere o piuttosto ne beneficiano?
Siamo certi, tuttavia, che a ogni nuova traduzione della Certosa di Parma il miracolo si ripeterà, generando nuovi stimoli, nuovo interesse: in molti riconosceranno nella Certosa, come dirà lo stesso Calvino, quel «romanzo che avevano sempre voluto leggere e che farà da pietra di paragone a tutti gli altri che leggeranno in seguito». Perché quella della Certosa è una lettura che lascia, per usare le parole di Balzac, «ravi, chagriné, enchanté, désespéré».
Si è scritto molto sulla fortuna del romanzo. Come ha evidenziato il pontefice degli stendhaliani, Victor Del Litto: «depuis que le stendhalisme existe, les stendhaliens n’ont jamais dételé».
Non solo Balzac: molti autori hanno scritto pagine bellissime sulla Certosa, pensiamo a Elio Vittorini, a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a Luigi Magnani, a Leonardo Sciascia. Parlando dello stendhaliano Savinio, Sciascia sottolineerà sullo scrittore: «Di quelli, insomma, che capovolgono il rapporto tra il lettore e il libro, tra il lettore e l’autore dell’opera letteraria: il libro che sceglie il lettore, l’autore che sceglie il lettore e lo destina a una fedeltà così strenua da confinare con la mania. Appunto come Stendhal».
Sono tanti i modi di leggere la Certosa. Sciascia ha scritto delle pagine profonde sul suo ‘adorabile Stendhal’ ma per comprendere nel profondo la complessità di questo romanzo ci può essere utile un suo testo sui Promessi Sposi. Riprendendo l’acuta analisi di Angelandrea Zottoli sulla visione della vita da parte di don Abbondio, sul suo pessimismo come schermo e come alibi, Sciascia sottolinea come il sistema di Don Abbondio sia inattaccabile, resistente a ogni cambiamento di scenario, adattabile a ogni mutamento nei rapporti di forza: in don Abbondio «l’uomo del Guicciardini, l’uomo del ‘particulare’ contro cui tuonò il De Sanctis, perviene […] alla sua miserevole ma duratura apoteosi». Per Sciascia, protagonista del capolavoro manzoniano non era la Provvidenza ma Don Abbondio:
Anni addietro Cesare Angelini […] fu folgorato da una domanda: perché se ne vanno? Perché Renzo e Lucia, ormai che nel castello di don Rodrigo c’è un buon signore e nulla più hanno da temere, lasciano il paese che tanto amano? Non seppe trovare risposta. E pure la risposta è semplice: se ne vanno perché hanno già pagato abbastanza, in sofferenza, in paura, a don Abbondio e al suo sistema; a don Abbondio che sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo. Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo.
Queste considerazioni ci possono aiutare per rispondere a un interrogativo: quale sistema emerge dalla Certosa di Parma e chi veramente trionfa? Non c’è la Provvidenza, non c’è il lieto fine. Per Calvino «quello che fa della Certosa di Parma un grande romanzo ‘italiano’ è il senso della politica come aggiustamento calcolato e distribuzione dei ruoli». Le raffinate analisi di Jean Starobinski ci illuminano sui personaggi del romanzo:
Gli eroi ribelli di Stendhal sono perciò impegnati sempre nelle ‘alte sfere’ del mondo politico, in quanto la politica è la fonte del potere. E siccome essi non accettano i valori ufficiali del mondo borghese, né quelli della Chiesa e della piccola nobiltà, sono condannati in perpetuo a fare il doppio gioco. Non sfidano mai la società apertamente, giacché la sfida è solo mormorata nel segreto del ‘foro interiore’, dall’alto di una torre o di una roccia solitaria […]. L’eroe stendhaliano non accetta di legare la propria sorte a nessuno, neppure per la causa più giusta: egli vuole la propria libertà e non quella degli altri. Perciò non lotta per rovesciare la società ma per accedervi […]. Emarginato da tale mondo, egli non cerca di distruggerlo, ma di penetrarvi per dominarlo. Consapevole che i vertici della società sono inespugnabili a un attacco frontale, il ribelle manifesta la propria derisione insinuandovisi mascherato e ingannando il nemico con il pretesto di servirlo. E una volta impadronitosi della posizione non si preoccupa più di mutare l’ordine delle cose […].
Eppure, anche nella perfezione del doppio gioco si innesta la passione che sconvolge ogni cosa: sorprende che il Conte Mosca sia disposto a rischiare di perdere tutto per amore della Sanseverina! Sorprende come il machiavellico Conte Mosca diventi instrumentum regni della Sanseverina. Lei che pianifica, dirige, abile nella tattica e nel disegnare scenari. Eppure, anche il calcolo più raffinato crolla davanti alla passione: persino i piani elaborati dalla Sanseverina vacillano rispetto all’imprevedibilità delle passioni, all’imponderabilità delle azioni di Fabrizio. Per Leonardo Sciascia «la gioia che dà Stendhal è imprevedibile quanto la vita».
In questi continui cambiamenti di scenario, al lettore non importa chi vince e chi perde: nella Chartreuse la forza dell’amore trasporta le sue vittime in una situazione fuori controllo, le fa precipitare, gli avvenimenti diventano rischiosi, poi incontrollabili, infine dall’esito fatale. Conquista e fuga si intrecciano, si compenetrano. «Per Stendhal – dirà Starobinski – la metamorfosi è un’apertura sull’avvenire, un’accelerazione dell’esistenza che volge però le spalle alla morte».
Ogni personaggio è la sintesi, o meglio, l’insieme di più personaggi: fu Balzac a rilevare come la Gina (prima Contessa Pietranera, poi Duchessa Sanseverina) fosse un insieme di Madame de Montespan, Caterina de Medici e Caterina II, dove il genio politico si univa al genio femminile con la massima bellezza.
Mais la Gina est d’une beauté sublime, elle est le type de cette beauté lombarde (bellezza folgorante) qui ne se comprend bien qu’à Milan et à la Scala, quand vous y voyez les mille belles femmes de la Lombardie. Les événements de cette vie agitée ont développé chez elle le plus magnifique caractère italien : elle a l’esprit, la finesse, la grâce italienne, la plus charmante conversation, un empire étonnant sur elle-même.
Si è scritto tanto sulla bellezza della Sanseverina, lo stesso Stendhal nella prima stesura della lettera in risposta a Balzac: «Je vous dirai une absurdité: beaucoup de passages de la duchesse Sanseverina sont copies du Corrège». Una riflessione attenta è quella di Luisa Viola:
Nel romanzo il personaggio di Gina viene inquadrato più che attraverso una puntuale descrizione fisica (Balzac non aveva tutti i torti…), attraverso la gestualità e la mimica, l’eleganza del portamento, il fascino e la vivacità dell’eloquio, pétillante, scintillante?, la definisce Stendhal. Quella che noi diremmo una bellezza di carattere, brio e malizia, entusiasmo, fatta di verve gusto e intelligenza più che di lineamenti o misure classiche, attraente come un tipo più che un modello senza tempo, in certo modo una bellezza ‘irregolare’, anticlassica, esattamente quel genere di donna che possiamo ritrovare nelle tele con gli Amori di Giove del nostro Correggio, nelle ninfe sedotte da Giove e dalle sue metamorfosi, Danae, Leda, Io […].
Ai calcoli e alle strategie della Sanseverina si contrappone nel romanzo la purezza e il candore della figura di Clelia. Pudore e rispetto sono le sue virtù. Eppure anche Clelia per amore ricama tele d’inganno. «Chi si cerca si perde, e chi accetta di perdersi si trova», nella sua figura si esaltano le tendenze contrapposte della metamorfosi e della sincerità.
Altri personaggi del romanzo hanno rapito i lettori: si pensi a Ferrante Palla, la cui tragica fine ricordava a Louis Aragon la morte del giornalista Gabriel Peri ucciso dai nazisti come anche lo scrittore Jacques Decour, che aveva appreso proprio nella Certosa di Parma la lezione alla quale è rimasto fedele fino alla morte.
Colpisce la potente ironia nel romanzo: Grahame Jones, rielaborando anche considerazioni di György Lukàcs, ha evidenziato la costante stendhaliana dell’ironia, che nutre continuamente il rapporto che si stabilisce tra il romanziere e i suoi personaggi. Per lui, questa ironia si manifesta su due livelli:
Ironia per il romanziere, perché Stendhal usa i suoi orgogliosi eroi per vendicarsi di una società che lo aveva sempre ignorato […]; ironia contro il romanziere, perché anche i suoi eroi sembrano sottolineare, con tutto ciò che hanno di notevole, le insufficienze di quest’uomo deluso che, per compensare le proprie delusioni, dà alle creature della sua fantasia l’alto destino che gli mancava nella vita.
A questa ironia è funzionale lo stile: «spoglio di qualsiasi belletto, alieno da ogni parola ricercata, nemico del ritmo intenzionale, avaro di aggettivi» come ha sottolineato Tomasi di Lampedusa. In cui diventa fondamentale, secondo György Lukács, l’«appassionato sforzo verso l’essenziale».
Vi è stato, infine, chi ha fatto una singolare e affascinante interpretazione del romanzo: Pierre Alain Bergher nel suo Les Mystères de “La Chartreuse de Parme”. Les arcanes de l’art, ritiene di poter svelare il segreto di Stendhal: un tarocco rinascimentale, ventidue carte con figure simboliche, come il Mondo, la Luna, il Giudizio; ognuna delle quali è un arcano, cioè un segreto riservato agli adepti. Stendhal «fut le premier à traiter ouvertement du symbolisme des vingt-deux arcanes, thème développé au XIXe siècle», sostiene Bergher, secondo cui i primi ventidue capitoli della Chartreuse corrispondono ai ventidue arcani maggiori dei tarocchi. Azzardo o delirio interpretativo quello di Bergher? Difficile seguire questa chiave di lettura, ma le suggestioni sul romanzo stendhaliano sono illimitate.
Leonardo Sciascia ha parlato di mistero di Stendhal «perché le ragioni per cui lo sia ama, per quanto le si ricerchi ed illumini, hanno sempre un che di misterioso, di sconfinato». E in questo mistero la lettura della Certosa di Parma ci porta sempre a esplorare nuovi labirinti. Il suo insieme di trame, tradimenti, passioni e delusioni rapisce il lettore. Le interpretazioni del romanzo sono svariate. Tomasi di Lampedusa, riferendosi a Le Rouge et le Noir e alla Chartreuse, riesce a evidenziarne la caratteristica fondamentale: queste opere posseggono «la poliedricità, la possibilità cioè di essere considerate da vari punti di vista, segno caratteristico delle opere di assoluto primo piano, che sono congegnate in modo da riuscire a presentarci lunghe e diverse prospettive spirituali da qualunque punto di vista vengano osservate». La potenza e la ricchezza dell’opera stendhaliana genera nel lettore un mutamento, un impatto sul modo di percepire il mondo e la vita, «proiettando – come dirà Calvino – le avventure stendhaliane sulla propria esperienza per trasfigurarla, come faceva Don Chisciotte因; per Del Litto attraverso l’opera di Stendhal «si possano comprendere le fobie, giustificare i timori, le incertezze, i dubbi del nostro quotidiano…».
All’inizio degli anni Trenta del Novecento, Giuseppe Antonio Borgese realizzò, dopo una lunga gestazione, il progetto di una grande Biblioteca Romantica per la casa editrice Mondadori, si trattava di Cinquanta capolavori in traduzioni esemplari! Il romanzo, come genere letterario, aveva una centralità assoluta. La collana verrà inaugurata proprio con La Certosa di Parma di Stendhal, nella traduzione di Ferdinando Martini. Perché Borgese preferì questo romanzo per iniziare la sua collana? E perché una nuova traduzione, diversa, quindi, da quella di Maria Ortiz del 1921 nella collana Biblioteca Sansoniana Straniera per l’editore Sansoni? Vi erano solo motivi editoriali? La Ortiz aveva già segnalato la difficoltà di un rapporto con l’opera stendhaliana:
Tradurre Stendhal è un’impresa quasi disperata; la traduzione vive del press’a poco, e Stendhal esige precisione assoluta di linguaggio; e, legato alla più schietta tradizione francese, ripugna alquanto alle forme italiane. Ma il contatto con una mente così chiara e precisa giova all’educazione del carattere, oltre a quella letteraria. In tempi in cui della parola s’è abusato in strani modi niente può esser più salutare che la consuetudine d’uno scrittore per cui ogni parola doveva corrispondere a un’idea o a un fatto ben determinato.
Quando nel maggio del 1930 venne pubblicata l’opera, Martini era già morto da due anni, ma la selezione di quella traduzione segnalava una precisa scelta di Borgese: Martini, politico e letterato, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, era diventato, secondo Benedetto Croce, il «più schietto rappresentante della ‘toscanità’, di quell’equilibrio, di quella temperanza, di quel gusto discreto, di quell’amore per la proprietà e la precisione del linguaggio, che è comunemente riconosciuto alla Toscana odierna». La traduzione martiniana – che si discostava e si differenziava dalla traduzione di Masieri di metà Ottocento e dalla traduzione del 1921 di Maria Ortiz – serviva a Borgese per esprimere una dichiarazione d’intenti, una sorta di manifesto, sfidando anche il regime fascista che poco tollerava la pubblicazione di autori stranieri e che prediligeva collane di italici autori, tanto che nel 1934 il regime imponeva agli editori il nihil obstat e, addirittura, nel 1938 istituiva una censura preventiva con l’invio delle bozze delle traduzioni al Ministero della Cultura Popolare e sancendo che «soltanto questo Ministero potrà autorizzare la diffusione in Italia delle traduzioni straniere».
Secondo Sciascia, Borgese «vedeva nella letteratura una sintassi – parola che gli era cara – della vita, del mondo, dell’uomo, di tutti gli uomini. Tra i vertici di questa sintassi che era per lui la letteratura – e le arti, e la politica – erano Stendhal e Tolstoj». Borgese riunì nella sua collana opere di autori come Dumas, Flaubert, Maupassant, Zola accanto ad autori come Eliot, James, Poe, Scott, combinando il suo amato Goethe – di cui curerà una bellissima traduzione de I dolori del Giovane Werther – accanto a Tolstoj e Gogol. Attraverso nuove traduzioni questi autori sarebbero entrati nel patrimonio culturale italiano e attraverso questa collana si sarebbe affermata ancora più forte la funzione pedagogica della letteratura (quanto era forte in Borgese l’insegnamento di Francesco De Sanctis). Per Borgese:
Insomma, l’artista che traduce in una lingua diversa dall’originale la Certosa di Parma non si limita a cercare equivalenze approssimative di un significato morto, non «impaglia i raggi di sole». Il suo lavoro non è il materiale trasporto di un’opera da un vocabolario in un altro; tradurre, volgere, sono parole che alludono a un’operazione più spirituale e profonda. Egli non s’indirizza soltanto a quelli che per mera ignoranza linguistica non possono leggere la Chartreuse de Parme; ma anzi! a quelli che l’hanno letta e delicatamente gustata; ma anzi! a Stendhal stesso. La Certosa di Parma, se essa è quale dev’essere, non ripete inferiormente la Chartreuse; la esplora, l’accresce, la sveglia, la pone in metamorfosi, attua uno dei modi in cui avrebbe potuto essere ed è. Stendhal stesso idealmente la legge, e vi scopre sostanze che nel suo testo erano represse ed occulte.
È passato quasi un secolo dall’edizione della Certosa nella Biblioteca Romantica. Tante altre traduzioni si sono succedute negli anni: da quella