La follia del riarmo e il tradimento della speranza - Azione Cattolica Italiana

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Nel secolo breve, l’umanità si è inginocchiata davanti al baratro due volte. Due guerre mondiali, cento milioni di morti, la Shoah, le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, il terrore dell’equilibrio nucleare che ha gelato il mondo per decenni. Tutto questo, ci avevano detto, non sarebbe mai più dovuto accadere. Ma a ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa torna a marciare al passo della guerra, con il passo pesante e cieco del riarmo. I Paesi della Nato, Italia inclusa, hanno deciso di portare la spesa militare fino al 5% del Pil entro il 2035. Un salto mai visto, una corsa che non porta alla pace, ma al suo contrario.

Le cifre parlano chiaro: si tratta di decine e decine di miliardi sottratti ogni anno non al superfluo, ma al necessario. A sanità, assistenza, scuola, università, ambiente, cooperazione allo sviluppo. Ogni euro investito nelle armi è un euro negato alla costruzione di futuro. Perché – lo sappiamo bene – i bilanci non sono elastici all’infinito. Ci è stato ripetuto fino allo sfinimento che le risorse sono limitate, che “non ci sono i soldi”, per gli asili nido, per gli ospedali, per i giovani ricercatori, per i disabili, per la casa. Ma all’improvviso, con la narrazione della minaccia alle porte, le regole sono saltate. Il vincolo di bilancio si allarga solo per armarsi.

Non possiamo tacere di fronte a questa scelta che tradisce lo spirito dell’Europa nata dalla riconciliazione, che piega i paesi dell’Unione – che della Nato è la parte politicamente debole, è evidente – a logiche militari imposte da fuori. La subalternità all’alleato statunitense – oggi guidato da un Donald Trump senza scrupoli di nuovo alla Casa Bianca – è manifesta e pericolosa. L’Europa, pur nella sua fragilità, ha una responsabilità storica: essere laboratorio di pace, non retrovia logistica di nuovi conflitti globali.

Papa Francesco, lo scorso anno, lo ha detto con parole semplici e potentissime: Se vuoi guadagnare di più, oggi, devi investire per uccidere. È questa la civiltà che vogliamo? Fabbriche di armi che producono profitti mentre marciscono le vite nei campi profughi e nei quartieri dimenticati delle nostre città? È accettabile che la nostra ricchezza si costruisca sulla morte di altri popoli? L’alternativa c’è, ed è quella proposta dallo stesso Pontefice: deviare le risorse del riarmo verso un fondo globale per eliminare la fame nel mondo. Un sogno? Forse. Ma più realistico di un’Europa blindata, impoverita e divisa.

Già nel 2014, con l’Evangelii Gaudium, il Papa aveva denunciato i meccanismi economici che spingono alla guerra, mascherandola come sicurezza. E aveva avvertito che la disuguaglianza genera inevitabilmente violenza. Una violenza che le armi non eliminano, ma moltiplicano. Oggi, dopo Gaza, dopo l’Ucraina, le sue parole risuonano con forza ancora maggiore: Viviamo una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Ed è tempo che quei pezzi vengano ricomposti da chi crede ancora che la pace non sia un’utopia, ma un compito.

Dietro l’apparente razionalità dei numeri, delle percentuali, delle “minacce da contrastare”, si nasconde una visione tragicamente miope: quella che crede che l’unico modo di evitare la guerra sia prepararsi a farla. Una logica fallita, smentita dalla storia e dalla realtà. Le guerre nascono non solo dalla forza, ma dall’ingiustizia. E la vera sicurezza nasce dalla giustizia sociale, dall’istruzione, dal lavoro, dalla coesione. Non dai carri armati.

Non si tratta di ignorare i pericoli del mondo. Si tratta di scegliere da che parte stare. Se dalla parte della paura o della speranza, dalla parte della logica del nemico o della cultura del dialogo. Se dalla parte della morte o della vita.

La bolla giubilare Spes non confundit lo ricorda con chiarezza: la speranza cristiana non è ingenuità, ma fedeltà. Fedeltà al Vangelo, che ci chiede di spezzare le spade per farne aratri. Fedeltà alle vittime della guerra, che ci chiedono di non ripetere gli errori del passato. E fedeltà ai poveri, ai piccoli, ai popoli dimenticati, che aspettano non bombe, ma pane.

Che senso ha salvare i conti pubblici se si perdono le coscienze? Che senso ha armarsi fino ai denti se poi si tagliano le radici della democrazia, del welfare, della cultura?

L’Europa, l’Italia, il mondo intero hanno bisogno di un’altra logica. Non quella del riarmo, ma della cura. Non quella del dominio, ma della fraternità. La storia ci giudicherà – e ci sta già giudicando – su questo. Abbiamo ancora tempo per cambiare rotta. Ma occorre il coraggio di dire no. Di gridarlo. Con forza. Prima che sia troppo tardi.

Nel cuore di chi crede, e non solo, risuoni con forza la visione di un futuro possibile e la parola di una Chiesa che, con voce limpida e profetica, indica la via della pace disarmata e disarmante. Una pace quella auspicata da Leone XIV che non si difende con i missili ma si costruisce con la giustizia, con la verità, con la tenerezza. Una pace che disarma perché non minaccia, e che disarma anche l’altro, perché gli offre fiducia. È forse un sogno? Sì, ma un sogno evangelico. E guai a smettere di sognare.

Recapiti
Antonio Martino